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10 dischi del 2025, da ascoltare sull’onda della rivoluzione musicale libanese
Musica
Car* lettor*, vi accolgo al termine di un altro anno prendendo spunto da un aforisma del poeta e attivista senegalese Léopold Sédar Senghor: «Là dove senti cantare, fermati: gli uomini malvagi non hanno canzoni». Cosa sarebbe la nostra vita senza la voce di quest* artist* che oltre alle corde vocali ci prestano occhi, cuore e soprattutto mezzi per arrivare a scoprire qualcosa in più di noi stess* giorno dopo giorno? Eppure, a volte è difficile fermarsi, tante sono le voci e le offerte artistiche profuse da un’offerta senza freni.
Quest’anno ho perciò stabilito idealmente la mia fissa dimora a Beirut, dove un gusto ricercato e una selezione scrupolosa danno vita ad alcuni tra gli album più belli del panorama internazionale. Se vi è capitato di sintonizzarvi sulle frequenze di Radio-Lebanon 96.2 sapete di cosa sto parlando e, sicuramente, non vi sfugge il nome di Ziad Nawfal, DJ e produttore che sta rivoluzionando la cultura musicale di un intero Paese. E se, come recita un altro proverbio africano, «Tante piccole persone che fanno tante piccole cose in tanti piccoli posti possono cambiare il volto del mondo», i piccoli segnali lanciati da questi artisti assumono un’ampiezza considerevole che travalica i confini del luogo in cui si trovano per raggiungere quelli in cui ci troviamo.
Nulla che non si sappia già ma è bene ribadirlo: la musica non cambierà di certo il mondo ma è fondamentale per renderlo più “nostro”, trasformandolo in Terra di Pace, tanto grande da accogliere tutt*. Una casa così spaziosa dove anche gli uomini malvagi avranno la possibilità di fermarsi e imparare qualche canzone.
Kokoroko – Tuff Times Never Last
La band afrobeat ritorna a calcare palchi importanti con questa nuova uscita discografica. Gli ingredienti sono gli stessi che gli hanno valso una giusta fama, un mix di afrobeat, jazz e R&B. Apprezzarli dal vivo è davvero un valore aggiunto, soprattutto per chi, come me, è avvezzo alle lunghe improvvisazioni, in cui tastiere e fiati diventano insostituibili interpreti. Un disco per qualsiasi pubblico, un balsamo per ogni tipo di ferita.
Paolo Angeli – Lema
L’artista di stanza a Barcellona continua un’affascinante ricerca musicale attraverso la sua caleidoscopica chitarra: come un diamante, il suono che ne filtra si scompone in colori che spaziano dall’ambient al folk, ora in tonalità calde, ora più formali. Il chitarrista ha il dono di comporre musica che, per quanto inclassificabile, risulta allo stesso tempo immediata. Se poi mi chiedete di definirla con un solo aggettivo, non potrebbe che essere uno: arcobalenica.
Lucrecia Dalt – A Danger to Ourselves
Cosa succede quando uno come me si imbatte in un nuovo lavoro di Lucrecia Dalt? Semplice: la inserisco nei migliori dischi dell’anno. Eppure, il nuovo album della Dalt si discosta dal precedente ¡Ay!, per stanze sonore più intime e familiari. Concedendosi, come suggerisce il titolo, un rischio costante, si addentra in atmosfere suadenti e rarefatte, in dolce contrasto con la pienezza e la densità della lingua spagnola che creano un corpus effimero e allo stesso tempo concreto.
Yara Asmar – Everyone I Love is Sleeping and I Love Them So So Much
Ascoltare Yara Asmar è un atto di amore che ognuno dovrebbe concedersi di tanto in tanto. Non solo per la genuinità avventurosa delle sue composizioni ma anche per il senso di sollievo che esse trasmettono: un set cinematografico dove si muovono burattini, oggetti magici e un filo di vento che apre le finestre e le spalanca sulla notte stellata, in cui le persone da noi amate dormono sonni tranquilli.
Yasmine Hamdan – I Remember I Forget
Scolpita nel mio cuore dalla sua apparizione in Only Lovers Left Alive di Jim Jarmusch, Yasmine Hamdan consegna un lavoro che piacerà agli amanti dell’arab electro house ma anche a chi predilige forme più ricercate. Tra queste, il “tarweedeh”, un particolare canto palestinese usato dalle donne per consegnare messaggi in codice ai detenuti durante l’occupazione delle truppe britanniche. Uno di quei dischi da riascoltare all’infinito, con le finestre spalancate.
Stereolab – Instant Holograms on Metal Film
In casi molto rari, è possibile vedere, come si suol dire, la propria vita passare davanti agli occhi. Con l’ultimo disco degli Stereolab, però, non è una, ma ben dieci vite che entrano nella nostra testa. Un valido ritorno che aggiunge un po’ di sana bellezza alle nostre esistenze. Dopo la reunion del 2019, questo album si attesta come la ciliegina sulla torta, impressa sulla pellicola di metallo dei nostri cuori.
Sanam – Sametou Sawtan
L’eco dello scoppio registratosi al porto di Beirut nel 2020 sembra essere il riverbero infuocato che pervade i brani di quest’album. Voce potente (Sandy Chamoun), chitarre ipnotiche, percussioni in salsa kraut rock e, in due occasioni, i versi del poeta persiano Omar Khayyam dipingono un disco abrasivo e dolce-notturno come il vino che abbonda nelle sue poesie, e che va assaporato lentamente. Sametou Sawtan è uno dei dischi più belli dell’anno appena trascorso e, probabilmente, anche di molti a venire.
Ben Lamar Gay – Yowzers
Avete presente quando, per decidere un viaggio, si fa girare il mappamondo a occhi chiusi, tenendo un dito fisso sulla superficie? Ben Lamar Gay ci prende per mano e ci accompagna in un viaggio orchestrale fatto di scoperte che sembrano casuali, ma che ruotano tutte attorno all’asse del suo mondo-museo. Dentro c’è tutto: dal blues alla sperimentazione, dall’improvvisazione radicale al free jazz. Quasi fosse il capitano in seconda dell’astronave della Sun Ra Arkestra, dimostra di sapersi destreggiare altrettanto bene nell’Universo, senza mai cadere nel vuoto.
Orcutt Shelley Miller – Orcutt Shelley Miller
Incredibile quanta musica continua a sprigionarsi, a distanza di mezzo secolo, dalla Fender Telecaster. Uno strumento trasversale quanto semplice: sei corde, due pickup. È forse proprio grazie a questa semplicità che lo strumento in questione travalica generi musicali da quando fu brevettato da Leo Fender. Oggi, il passaggio di testimone è affidato a Bill Orcutt, il cui fraseggio rabbioso, che mischia rock-punk-avantgarde e free impro, ri-attualizza e ritualizza il trio chitarra-basso-batteria. Accompagnato da Steve Shelley alla batteria e Ethan Miller al basso, l’album omonimo piacerà sicuramente a chi, come me, adora i Sonic Youth, Robbie Basho, Nels Cline e la musica indiana.
Lay Llamas – Hidden Eyes In A Ghost Jungle
Esotiche disarmonie alla base di questo interessante lavoro dell’artista siciliano Nicola Giunta, che torna con un disco a metà tra library music e neopsichedelia. Qualcosa che forse si sarebbe potuto ascoltare fumando erba con Daevid Allen sulla sua teiera volante al tempo dei Gong. Tuttavia, Hidden Eyes dilata non solo la mente ma anche lo spazio sonoro, scavando nel suono un giaciglio sul quale stendersi e osservare le nuvole passare dolcemente sopra la nostra testa.










