31 dicembre 2025

Siamo qui, sulla soglia di un altro anno palpitante… il 2026

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Il 2025 giunge al termine, il 2026 è pronto a farsi strada. Qualcuno forse, se potesse, vorrebbe vederne il trailer. Noi di exibart non ce l’abbiamo da mostrarvi, ma vogliamo augurarvi un finale felice e un migliore, e bellissimo principio, con un nostro carosello, tutto da attraversare

Olafur Eliasson, Kaleidoscope for beginning at the end, 2024. The Geffen Contemporary at MOCA, Los Angeles, California – 2024. Photo Zak Kelley

«Siamo in piedi, nudi, sull’ingresso principale del Museo, una di fronte all’altro. Il pubblico che entra nel Museo deve oltrepassare, mettendosi di traverso, il piccolo spazio tra di noi. E ogni persona che passa deve scegliere chi di noi due affrontare». Era il 1977 e alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna si svolgeva la Settimana Internazionale della Performance, a cura di Renato Barilli. Quelli in piedi, nudi, all’ingresso erano Marina Abramovic e Ulay, e con Imponderabilia costrinsero il pubblico a passare tra loro, ad attraversarli, senza la possibilità di guardare dritti davanti a loro ma scegliendo per forza verso chi dei due rivolgersi. 

Certo, è assolutamente immaginario, ma nessuno ci vieta di provare a immaginarci al posto loro, dei due artisti, l’anno che sta finendo e l’anno che sta per iniziare. Cosa guarderemmo, il vecchio o il nuovo? Bill Vaughan una volta disse «Un ottimista sta alzato fino a mezzanotte per vedere il Nuovo Anno. Un pessimista sta alzato per accertarsi che il vecchio anno se ne vada via», come a suggerirci la nostra disposizione d’animo in base alla direzione del nostro sguardo. Ottimisti e pessimisti, si può dire che entrambi comunque attraverseranno la soglia che li separa. 

Imponderabilia,Marina Abramovic e Ulay. Ph. Giovanna Dal Magro
Olafur Eliasson, Your activity horizon, 2004. Reykjavik Art Museum, Hafnarhús, 2004. Ph. Ari Magg
Robert Irwin, Scrim veil—Black rectangle—Natural light, 1977. Whitney Museum of American Art, New York, June 27 – September 1, 2013. © Robert Irwin. Photograph © 2013 Philipp Scholz Rittermann

Quello della soglia è uno dei temi più affascinanti, della vita e dell’arte contemporanea. Può assumere sfumature fisiche, o psicologiche, addirittura antropologiche: non è né qui, né lì, eppure noi siamo proprio in prossimità sua, tra dentro e fuori, reale e virtuale, conscio e inconscio. Cosa possiamo fare, se non attraversarla? Come, per esempio, attraversiamo le installazioni Olafur Eliasson. Non le guardiamo semplicemente, ci passiamo attraverso, diventando consapevoli della nostra percezione e del confine che esiste tra il nostro corpo e il circostante. La sua lettura, decisamente dinamica, sembra in qualche modo interrogare i meccanismi della nostra vista, come anche fa Robert Irwin, che la esplora come il limite fisico e sottilissimo della percezione pura: nel 1977, con Scrim veil—Black rectangle—Natural light, aveva trasformato un intero piano del Whitney Museum in un’esperienza di soglia, mentre più recentemente ha iniziato a utilizzare tubi a fluorescenza colorati per alterare l’architettura circostante.

Eliasson fa uso di nebbie, di luci – come James Turrel, che lavora sulla soglia della luce e del cielo come nel caso di Roden Crater, un vulcano spento trasformato in un osservatorio che diventa soglia fisica verso il cieloe il cosmo – e di specchi, di cui si serve anche Yayoi Kusama: le sue Infinity Mirror potremmo dire che sono una vera e propria incarnazione fisica della soglia. Entrare in una di queste, varcando una porta e chiudendola dietro di sé, significa ritrovarsi in bilico tra il finito e il non finito che dà l’illusione – ottenuta, appunto, attraverso gli specchi, che eliminano la percezione del muro – di uno spazio liminale, possibile di fusione con l’universo. 

James Turrell, Roden Crater. East Portal © James Turrell, photography by Florian Holzherr
Yayoi Kusama, Aftermath of Obliteration of Eternity, 2009. Collection of the artist. Courtesy of Ota Fine Arts, Tokyo/Singapore; Victoria Miro, London; David Zwirner, New York. © Yayoi Kusama

Specchi, o superfici specchianti, sono utilizzate anche da Michelangelo Pistoletto, che rende la soglia un punto di incontro tra arte e vita – i suoi quadri sono una sorta di soglia dinamica che include lo spettatore nell’opera, ancorandolo al presente e alla realtà – e anche da Anish Kapoor, per creare un senso di disorientamento. Il suo Sky Mirror, per esempio, è una soglia che annulla la distanza tra noi e il cosmo perché, guardandolo, non si vede un oggetto ma un pezzo di atmosfera incastonata nel suolo. In alternativa agli specchi – potremmo citare anche Cloude Gate, che riflette lo skyline di Chicago includendo anche lo spettatore nella moltiplicazione dei riflessi – Kapoor si serve anche di pigmenti, spesso molto scuri, per creare quelli he sembrano dei veri e propri buchi nello spazio che creano un vero e proprio abisso visivo, dove la profondità diventa indecifrabile.

La soglia che con Kapoor diventa il margine tra materia e immateriale, con Leandro Erlich separa e tiene insieme, al contempo, realtà e illusione e si esprime attraverso il superamento del limite tra ordinario e straordinario. L’artista argentino, peraltro protagonista di una mostra, nel 2023 a Milano, intitolata Oltre la soglia, opera con il concetto non in termini di limite invalicabile e insuperabile, bensì come un punto di passaggio necessario: la soglia è apparenza, da superare, la soglia è partecipazione, interazione, liberazione dai preconcetti e scoperta di molteplici prospettive.

Michelangelo Pistoletto. Exhibition view Galleria Continua, San Gimignano. Ph. Ela Bialkowska, OKNO Studio
Anish Kapoor, he Earth, 2012, Fibreglass, wood and blue pigment. Ph Rémi Lavalle
Leandro Erlich, Oltre la soglia. Exhibition view at Palazzo Reale, Milano, 2023. Photo Fabrizio Spucches per Arthemisia

Per Bruce Nauman invece il concetto di soglia è un elemento spaziale e concettuale cruciale, utilizzato per esplorare la percezione, la condizione umana e i limiti dell’esperienza, che spesso genera disorientamento, ansia e consapevolezza fisica e psicologica. Opere come Green Light Corridor Corridor Installation modellano una relazione tra emancipazione e controllo e, spingendo lo spettatore oltre la propria “comfort zone”, verso una consapevolezza più cruda e diretta della realtà fisica e mentale, sfociano in un’esperienza che stimola la riflessione sull’etica e sulla condizione umana. In un certo senso, non troppo distante da lui per la chiave di lettura, anche Gregor Schneider – è il caso della celebre Haus u r – fa della soglia un passaggio verso un doppio labirintico e claustrofobico che trasforma il familiare in qualcosa di profondamente perturbante.

Bruce Nauman, Green light corridor. Installation view, 2016. Courtesy Guggenheim New York
Bill Viola, Ocean Without a Shore, 2007. Video/sound installation. Color high-definition video triptych, two 65-in. flat panel screens, one 103-in. screen mounted vertically on architectural elements on three walls; six loudspeakers (three pairs, stereo sound). Continuously running. Photo: Kira Perov © Bill Viola Studio
Bill Viola, The Raft, May 2004. Video/sound installation. Color high-definition video projection on wall in a darkened space; 5.1 channels of surround sound, 3,96×2,23 m. 10:33 minutes. Photo: Kira Perov © Bill Viola Studio

Decisamente diversa, ovvero assolutamente spirituale, metafisica ed esistenziale, sono le sfumature che la soglia ha assunto nella visione di Bill Viola, che appunto la considerava un luogo di passaggio tra stati d’essere, tra la vita e la morte, tra il conscio e l’inconscio, tra il tempo lineare e l’eternità. In opere come Ocean Without a Shore e nella serie Transfigurations la soglia è rappresentata fisicamente da una parete d’acqua invisibile da cui emergono corpi umani, in bianco e nero, che al passaggio prendono colore, volume e materialità prima di ritirarsi nuovamente oltre quel confine, tornando nell’intangibile. Spesso nella ricerca di Viola l’acqua è stata il medium per eccellenza del passaggio, ne sono esempi anche The Crossing o The Messenger. Meno spirituale ma altrettanto vicina a noi perché esplorano la struttura della nostra società sono le interpretazioni di Dan Graham, che utilizza l’architettura come dispositivo percettivo – i suoi padiglioni in vetro specchiante bidirezionale creano una soglia ambigua tra interno ed esterno – e Doris Salcedo: sua è Shibboleth, realizzata nel 2007 per la Turbine Hall della Tate Modern nella forma di una crepa profonda 548 piedi, che attraversava l’intero pavimento del museo, rappresentativa di una frattura fisica e simbolica che divideva lo spazio. Quella crepa, una volta chiusa la mostra, fu sigillata per lasciare una cicatrice permanente nel cemento, una soglia mnemonica che impedisce di dimenticare le divisioni sociali. E che, forse, noi possiamo trasformare in un simbolo di forza, di saggezza, di resilienza. 

Arrivederci 2025, 2026 ti stiamo aspettando. Oltrepassare la soglia, e con essa ogni nostro limite, lasciando che i nostri occhi sappiano selezionare e assorbire, e che le nostre forze ci guidino verso ciò a cui vale la pena concedersi, potrebbe essere un nuovo e bellissimo proposito.

Doris Salcedo’s Shibboleth at Tate Modern in 2007. Photograph- David Levene – The Guardian

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