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17
luglio 2008
La donna che quest’artista friulana dipinge non è una donna. Non esattamente, per lo meno. È un’idea al femminile. Abituato al folklore vistoso delle curve da sfilata e pubblicità, quelle senza mai troppa pelle addosso, l’occhio segue i lavori di Vesna Pavan (Spilimbergo, Pordenone, 1976; vive a Milano) rimanendo sempre vigile, mai pago, sempre in cerca. La retina dello spettatore s’insinua tra le pennellate e la carne reale dei collage, con la velocità con la quale una mano passerebbe su un telo, accarezzando rapidamente le coste carnose del velluto scuro. Tessuto pastoso al primo sguardo eppure estremamente inconsistente e sfuggevole a contatto diretto con la pelle.
Attraverso questa breve sinestesia si spiega con chiara semplicità il gioco di trasparenze e di delicati abbagli visivi che queste silhouette in posa, appese alle pareti della galleria, regalano; spandendo, anche se di poco, il loro rigido candore oltre la dimensione ampia e regolare degli spazi attorno. I lavori esposti, una ventina in tutto, rimangono sui muri, come poster d’altri tempi, provocando un’onda variegata di alternati bianchi e neri, a metà tra il dipinto e il collage, tra l’anonimato e il dissolvimento, tra l’evanescenza e la femminilità.
Come se la mano che li ritrae decidesse di retrocedere proprio sul punto che determina lo stile compositivo, dividendo le opere dalla scelta di un’estrema figurazione, queste ombre cave, prominenti e prorompenti, sembrano disegnate in punta di dita, sulla superficie del latte.
Bocche rosse, volti senza sguardi (seppur immaginabili come perfetti), capelli folti, mani longilinee e gambe sode (come solo la perfezione mentale di una donna riuscirebbe a concepirle e a vederle) si trasformano in un miscuglio niveo dal vago sapore retrò.
L’inconsistenza di questi dipinti resta dunque il paravento ideale che li separa dall’unico concetto di spessore che manca alla serie di lavori esposti. Come una cipria che sfuma i contorni bruciati, infatti, l’immaginazione di Pavan è un espediente, tra la veglia e il sonno, che allontana e distoglie chi guarda dalla realtà imprescindibile della femminilità: la tonalità della pelle. La stessa pelle che odora per farsi carne. Se, dunque, l’unica pecca di questa serie di dipinti, mai dipinti e mai puramente concetti su carta, è e resta l’estrema compostezza dei soggetti, fin troppo languidi e assecondanti rispetto alla canicola estiva, i lavori, nella loro intrigante complicità, riservano spazi per l’immaginazione da non sottovalutare.
Alla stregua di trappole, di ragnatele tessute per imprigionare mannequin e raffinati abiti haute couture, i corpi di Pavan diventano un tramite per mandare avanti. Per spingere l’occhio troppo riluttante come quello eccessivamente assuefatto sulla strada della visione; su quel ponte che unisce sazietà e disinvoltura, riflesso e incomprensione del sé, rapidità di fruizione e dolce statica della bellezza.
In un instabile concerto di forme che non parla più all’arte, ma alla funzionalità dell’intraprendenza immaginifica.
Attraverso questa breve sinestesia si spiega con chiara semplicità il gioco di trasparenze e di delicati abbagli visivi che queste silhouette in posa, appese alle pareti della galleria, regalano; spandendo, anche se di poco, il loro rigido candore oltre la dimensione ampia e regolare degli spazi attorno. I lavori esposti, una ventina in tutto, rimangono sui muri, come poster d’altri tempi, provocando un’onda variegata di alternati bianchi e neri, a metà tra il dipinto e il collage, tra l’anonimato e il dissolvimento, tra l’evanescenza e la femminilità.
Come se la mano che li ritrae decidesse di retrocedere proprio sul punto che determina lo stile compositivo, dividendo le opere dalla scelta di un’estrema figurazione, queste ombre cave, prominenti e prorompenti, sembrano disegnate in punta di dita, sulla superficie del latte.
Bocche rosse, volti senza sguardi (seppur immaginabili come perfetti), capelli folti, mani longilinee e gambe sode (come solo la perfezione mentale di una donna riuscirebbe a concepirle e a vederle) si trasformano in un miscuglio niveo dal vago sapore retrò. L’inconsistenza di questi dipinti resta dunque il paravento ideale che li separa dall’unico concetto di spessore che manca alla serie di lavori esposti. Come una cipria che sfuma i contorni bruciati, infatti, l’immaginazione di Pavan è un espediente, tra la veglia e il sonno, che allontana e distoglie chi guarda dalla realtà imprescindibile della femminilità: la tonalità della pelle. La stessa pelle che odora per farsi carne. Se, dunque, l’unica pecca di questa serie di dipinti, mai dipinti e mai puramente concetti su carta, è e resta l’estrema compostezza dei soggetti, fin troppo languidi e assecondanti rispetto alla canicola estiva, i lavori, nella loro intrigante complicità, riservano spazi per l’immaginazione da non sottovalutare.
Alla stregua di trappole, di ragnatele tessute per imprigionare mannequin e raffinati abiti haute couture, i corpi di Pavan diventano un tramite per mandare avanti. Per spingere l’occhio troppo riluttante come quello eccessivamente assuefatto sulla strada della visione; su quel ponte che unisce sazietà e disinvoltura, riflesso e incomprensione del sé, rapidità di fruizione e dolce statica della bellezza.
In un instabile concerto di forme che non parla più all’arte, ma alla funzionalità dell’intraprendenza immaginifica.
ginevra bria
mostra visitata il 9 luglio 2008
dal 10 luglio al 25 settembre 2008
Vesna Pavan – The dream of the line
BAG – Bel Art Gallery – Temporary Art Store
Corso Garibaldi, 3 (zona Brera) – 20129 Milano
Orario: da martedì a sabato ore 16-20
Ingresso libero
Info: tel. +39 0289075915; fax +39 0289075943; info@belartgallery.net; www.belartgallery.net
[exibart]







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Mi chiedevo, come può aver visitato la mostra il 9 luglio,se l’innaugurazione è avvenuta il giorno dopo?