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Ruggero Maggi – Aspetti di confine
In un ambiente naturalistico l’inserimento di elementi primari geometrici con precisi tagli installativi resi più “morbidi” da strutture, più o meno casuali e caotiche
Comunicato stampa
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Aspetti di Confine:
Ruggero Maggi e lo Zoo di Kappa
di Paolo Donini
Uno tra gli ultimi microeventi improvvisi della quotidianità è l’incontro con l’animale. La comparsa dell’animale è fulminea, la circonda una accezione fantastica che rende in certo modo leggendaria anche la torva andatura del topo nel vicolo e afferma una distanza assoluta tra la specie umana e la specie altra.[…] Ma la bestia che non riconosce le profferte di ospitalità opta recisamente per il suo mistero definitivo: a quel punto l’animale appare all’uomo unicamente come fremente corpo araldico; la sua espressività non è comunicativa ma apodittica; il suo carattere leggendario è il carisma che l’animale esercita sull’immaginazione umana, nell’assenza di qualsiasi confidenza. L’essere lì della bestia coincide con l’essere lì del corpo primario e fremente. Dal punto di vista intellettuale questa eventualità rappresenta il luogo pre-lingusitico puro il cui unico segno incomprimibile è il corpo. Il corpo si manifesta come unico segna nell’assenza di un linguaggio mutuabile. Il corpo prelinguistico diviene segno vivente. La sua significatività non consiste nell’allusione ad altro, nella metafora o nella referenzialità indicativa che è propria, ad esempio, della parola d’uso, ma nella coincidenza cieca segno-senso: il corpo significa ciò che è e che fa. La sua presenza impone l’attivazione una lettura sensibile per non dire sensitiva, entro una temporalità in atto, una flagranza. L’attenzione guardinga che è propria delle situazioni di emergenza istantanea, si rivolge all’imponderabile che il segno-corpo potrebbe innescare. Quindi il segno-corpo allude alla grande forma indomabile come rivelazione intellettuale: la vivezza. […] Nell’accedere allo spazio performativo il visitatore importa nell’esperienza culturale la stesso esperienza dell’osservatore nello zoo. Lo zoo è il luogo artificiale dell’incontro con l’animalità, coatta ma pur sempre indomabile. Paragonare lo zoo all’area performativa in cui si trova il segno-corpo, ci aiuta a estrapolare alcune evidenze. […]
All’ingresso dello spazio performativo Kappa si presenta in quella stessa immobilità tatuata che è propria dei sauri; in quel momento Kappa è un’iguana concettuale; il suo non è propriamente un atteggiamento ma un essere lì di cui si intuisce il radicamento: Kappa in quanto segno-corpo si trova da sempre lì. Il visitatore accede nel suo luogo e avverte il carattere di intrusione la cui conseguenza è un voyeurismo implicito all’osservazione della forma vivente, come di fronte all’animale disturbato nel suo puro fare.
La precisione con cui Maggi ha disposto le sculture e organizzato i rapporti interni all’opera evidenzia una progettualità del luogo come luogo paradigmatico della ragione. La ratio del luogo è affidata alle geometrie e al bilanciamento estetico di grande eleganza tra i vari elementi ed è ribadita dalla perpetuità del moto d’acque e dalla registrazione filmica come atto di prelievo documentale di un evento involontariamente significativo, con impliciti rimandi all’archetipo sostenuti dall’acqua come elemento primario. In questo ordinamento tuttavia Maggi consente l’immissione di un fattore eversivo irreparabile: come nel filmato il moto perpetuo della fontana è sovvertito dal rombo delle automobili, così le forme geometriche sono assalite dalla suggerita miriade di mani di terra. Maggi ha operato con una coerenza estrema nel rispecchiare da un codice audio visivo all’altro questo rimbalzo tra ratio e sovversione, ordine e caos.
L’immobilità bilanciata delle forme e delle ombre e la cadenza eterna e prevedibile del moto d’acque sono costantemente infranti dalla varianza degli scrosci, dal rombo delle auto e dalla presenza pervasiva del segno-corpo il cui carattere sobillatorio e allarmante consiste in primo luogo in questo: nell’essere vivo. La vivezza utilizzata come cuore dell’opera è il vero fulcro di questa che definiamo zoo opera.
La vivezza collocata all’interno della ratio dell’opera come anima semantica si trova con essa in una dialettica inscindibile. Questo colloquio definisce l’orizzonte concettuale a cui Maggi allude: una lettura del mondo organizzato costantemente pervaso dalla vivezza caotica intesa come valore drammatico: la solitudine del corpo diviene solitudine pre-linguistica dell’essere. Qui l’essere non è comunicativo ma apodittico, insocievole e puro. L’eleganza concettuale consiste nella assenza di una scelta di campo di natura riflessiva o politica e nella affermazione semplice e persino umile di un luogo di conflittualità potente e di contraddizione verosimile. Quello che Maggi ritrae è una condizione dell’essere fra le cose in assenza di retorica.
Il segno-corpo che inizia a muoversi articolandosi nello spazio emerge senza strappi nella scena grazie alla continuità gestuale e materica affidate al moto e alla mimesi prodotta dalla tuta. A questo punto Kappa si evolve da iguana concettuale rivelando il suo carattere di segno, di indice lirico e narrativo dell’opera. Articolando nello spazio una sintassi il segno-corpo segue una partitura di aperture e di ripiegamenti, di lentezze e di accelerazioni che complessivamente alludono allo sforzo vitale come alternanza di angoscia e sollievo, quiete e cinesi, forza e abbandono. Il radicamento del segno-corpo nella materia dell’opera, la sua natura peninsulare per cui il segno Kappa si muove con una continuità plastica mai recisa dalla scena e dalle forme scultoree, come se vi fosse semplicemente nato o spuntato e trattenuto da un peduncolo naturale, è la sede stessa del pathos di quest’opera. Il pathos dell’opera si stabilizza come tensione del segno-corpo entro una forma fraterna o addirittura consustanziale da cui esso non può spiccarsi.
Il significare del segno-corpo nella sua articolazione sintattica è il vessillo che sventola nella solitudine cieca della forma di cui non è esso stesso che una evoluzione o protensione drammatica. Il pathos dell’opera coincide con la disperazione del segno-corpo ancorato alla solitudine delle forme.
Con fermezza ma senza alcun sadismo Maggi acconsente alla vivezza di manifestare il suo carattere di effrazione nel segno-corpo ma sembra ribadirne il carattere di vittima. Kappa diviene, nelle fasi drammatiche del gesto, la vittima semantica dell’opera. Entrambi gli emisferi del racconto, l’ordine delle forme e il caos indomabile, convergono nel segno-corpo che ne porta e patisce la contraddizione in quanto vivezza in fieri, esposta e consustanziale a entrambe le controtendenze.
La disciplina del segno-corpo a cui Kappa si appella nei movimenti più apertamente musicali e coreografici sembra rispecchiare l’ordinamento, la ratio dell’opera così come la sua costante ricaduta, nell’articolarsi della gestualità contraddittoria, rispecchia la macchina caotica dell’accadere. Ma ciò che va notato è che la pietas della scena viene rivolta con intelligenza da Maggi al corpo in quanto vivezza che patisce e porta tutti questi contrasti.
L’uso dei bastoni d’acqua che Kappa accentua nella fase finale sembra alludere a una estrema ricerca di strumenti a supporto espressivo, di ausili o protesi che mimano gli strumenti di una liturgia, quasi sempre frustrati dal finale colpo del bastone sul pavimento che sembra scandire nel vuoto una conclusione fatalmente cerimoniale, una sorta di rituale del gesto, come se l’alternanza disperante delle precedenti fasi performative, nel pathos di un’opera totale in cui la concomitanza dei contrasti in atto definisce l’orizzonte di una condizione scevra di ideologia, non potesse che affidarsi al modulo simbolico del rito, e il segno Kappa si consegnasse alla suo esito finale di icona tragica.
Ruggero Maggi e lo Zoo di Kappa
di Paolo Donini
Uno tra gli ultimi microeventi improvvisi della quotidianità è l’incontro con l’animale. La comparsa dell’animale è fulminea, la circonda una accezione fantastica che rende in certo modo leggendaria anche la torva andatura del topo nel vicolo e afferma una distanza assoluta tra la specie umana e la specie altra.[…] Ma la bestia che non riconosce le profferte di ospitalità opta recisamente per il suo mistero definitivo: a quel punto l’animale appare all’uomo unicamente come fremente corpo araldico; la sua espressività non è comunicativa ma apodittica; il suo carattere leggendario è il carisma che l’animale esercita sull’immaginazione umana, nell’assenza di qualsiasi confidenza. L’essere lì della bestia coincide con l’essere lì del corpo primario e fremente. Dal punto di vista intellettuale questa eventualità rappresenta il luogo pre-lingusitico puro il cui unico segno incomprimibile è il corpo. Il corpo si manifesta come unico segna nell’assenza di un linguaggio mutuabile. Il corpo prelinguistico diviene segno vivente. La sua significatività non consiste nell’allusione ad altro, nella metafora o nella referenzialità indicativa che è propria, ad esempio, della parola d’uso, ma nella coincidenza cieca segno-senso: il corpo significa ciò che è e che fa. La sua presenza impone l’attivazione una lettura sensibile per non dire sensitiva, entro una temporalità in atto, una flagranza. L’attenzione guardinga che è propria delle situazioni di emergenza istantanea, si rivolge all’imponderabile che il segno-corpo potrebbe innescare. Quindi il segno-corpo allude alla grande forma indomabile come rivelazione intellettuale: la vivezza. […] Nell’accedere allo spazio performativo il visitatore importa nell’esperienza culturale la stesso esperienza dell’osservatore nello zoo. Lo zoo è il luogo artificiale dell’incontro con l’animalità, coatta ma pur sempre indomabile. Paragonare lo zoo all’area performativa in cui si trova il segno-corpo, ci aiuta a estrapolare alcune evidenze. […]
All’ingresso dello spazio performativo Kappa si presenta in quella stessa immobilità tatuata che è propria dei sauri; in quel momento Kappa è un’iguana concettuale; il suo non è propriamente un atteggiamento ma un essere lì di cui si intuisce il radicamento: Kappa in quanto segno-corpo si trova da sempre lì. Il visitatore accede nel suo luogo e avverte il carattere di intrusione la cui conseguenza è un voyeurismo implicito all’osservazione della forma vivente, come di fronte all’animale disturbato nel suo puro fare.
La precisione con cui Maggi ha disposto le sculture e organizzato i rapporti interni all’opera evidenzia una progettualità del luogo come luogo paradigmatico della ragione. La ratio del luogo è affidata alle geometrie e al bilanciamento estetico di grande eleganza tra i vari elementi ed è ribadita dalla perpetuità del moto d’acque e dalla registrazione filmica come atto di prelievo documentale di un evento involontariamente significativo, con impliciti rimandi all’archetipo sostenuti dall’acqua come elemento primario. In questo ordinamento tuttavia Maggi consente l’immissione di un fattore eversivo irreparabile: come nel filmato il moto perpetuo della fontana è sovvertito dal rombo delle automobili, così le forme geometriche sono assalite dalla suggerita miriade di mani di terra. Maggi ha operato con una coerenza estrema nel rispecchiare da un codice audio visivo all’altro questo rimbalzo tra ratio e sovversione, ordine e caos.
L’immobilità bilanciata delle forme e delle ombre e la cadenza eterna e prevedibile del moto d’acque sono costantemente infranti dalla varianza degli scrosci, dal rombo delle auto e dalla presenza pervasiva del segno-corpo il cui carattere sobillatorio e allarmante consiste in primo luogo in questo: nell’essere vivo. La vivezza utilizzata come cuore dell’opera è il vero fulcro di questa che definiamo zoo opera.
La vivezza collocata all’interno della ratio dell’opera come anima semantica si trova con essa in una dialettica inscindibile. Questo colloquio definisce l’orizzonte concettuale a cui Maggi allude: una lettura del mondo organizzato costantemente pervaso dalla vivezza caotica intesa come valore drammatico: la solitudine del corpo diviene solitudine pre-linguistica dell’essere. Qui l’essere non è comunicativo ma apodittico, insocievole e puro. L’eleganza concettuale consiste nella assenza di una scelta di campo di natura riflessiva o politica e nella affermazione semplice e persino umile di un luogo di conflittualità potente e di contraddizione verosimile. Quello che Maggi ritrae è una condizione dell’essere fra le cose in assenza di retorica.
Il segno-corpo che inizia a muoversi articolandosi nello spazio emerge senza strappi nella scena grazie alla continuità gestuale e materica affidate al moto e alla mimesi prodotta dalla tuta. A questo punto Kappa si evolve da iguana concettuale rivelando il suo carattere di segno, di indice lirico e narrativo dell’opera. Articolando nello spazio una sintassi il segno-corpo segue una partitura di aperture e di ripiegamenti, di lentezze e di accelerazioni che complessivamente alludono allo sforzo vitale come alternanza di angoscia e sollievo, quiete e cinesi, forza e abbandono. Il radicamento del segno-corpo nella materia dell’opera, la sua natura peninsulare per cui il segno Kappa si muove con una continuità plastica mai recisa dalla scena e dalle forme scultoree, come se vi fosse semplicemente nato o spuntato e trattenuto da un peduncolo naturale, è la sede stessa del pathos di quest’opera. Il pathos dell’opera si stabilizza come tensione del segno-corpo entro una forma fraterna o addirittura consustanziale da cui esso non può spiccarsi.
Il significare del segno-corpo nella sua articolazione sintattica è il vessillo che sventola nella solitudine cieca della forma di cui non è esso stesso che una evoluzione o protensione drammatica. Il pathos dell’opera coincide con la disperazione del segno-corpo ancorato alla solitudine delle forme.
Con fermezza ma senza alcun sadismo Maggi acconsente alla vivezza di manifestare il suo carattere di effrazione nel segno-corpo ma sembra ribadirne il carattere di vittima. Kappa diviene, nelle fasi drammatiche del gesto, la vittima semantica dell’opera. Entrambi gli emisferi del racconto, l’ordine delle forme e il caos indomabile, convergono nel segno-corpo che ne porta e patisce la contraddizione in quanto vivezza in fieri, esposta e consustanziale a entrambe le controtendenze.
La disciplina del segno-corpo a cui Kappa si appella nei movimenti più apertamente musicali e coreografici sembra rispecchiare l’ordinamento, la ratio dell’opera così come la sua costante ricaduta, nell’articolarsi della gestualità contraddittoria, rispecchia la macchina caotica dell’accadere. Ma ciò che va notato è che la pietas della scena viene rivolta con intelligenza da Maggi al corpo in quanto vivezza che patisce e porta tutti questi contrasti.
L’uso dei bastoni d’acqua che Kappa accentua nella fase finale sembra alludere a una estrema ricerca di strumenti a supporto espressivo, di ausili o protesi che mimano gli strumenti di una liturgia, quasi sempre frustrati dal finale colpo del bastone sul pavimento che sembra scandire nel vuoto una conclusione fatalmente cerimoniale, una sorta di rituale del gesto, come se l’alternanza disperante delle precedenti fasi performative, nel pathos di un’opera totale in cui la concomitanza dei contrasti in atto definisce l’orizzonte di una condizione scevra di ideologia, non potesse che affidarsi al modulo simbolico del rito, e il segno Kappa si consegnasse alla suo esito finale di icona tragica.
14
maggio 2005
Ruggero Maggi – Aspetti di confine
Dal 14 maggio al 10 luglio 2005
arte contemporanea
Location
GALLERIE CIVICHE DI PALAZZO DUCALE
Pavullo Nel Frignano, Via Giardini, 3, (Modena)
Pavullo Nel Frignano, Via Giardini, 3, (Modena)
Orario di apertura
martedì giovedì venerdì 17.00/19.00; sabato, domenica e festivi 10.00/13.00 e 17.00/19.00
Vernissage
14 Maggio 2005, ore 18
Autore
Curatore



