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Giulio Bellutti – …Marie Victoire in Ghepardo, ovvero la vera storia…
Personale a cura di Viana Conti
Comunicato stampa
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Mi basta una candela
e un lenzuolo bianco
per ricreare una magìa.
Federico Fellini
Quando la pittura sale in scena
Le seduzioni del palcoscenico, le luci della ribalta, il ciak si gira, per non dire del solenne levarsi del sipario, ineccepibilmente di velluto rosso, ma anche lo scintillìo dei fregi dorati del teatro, rappresentano quegli scenari e quegli attimi, irripetibili, che indicano la soglia al di là della quale l’immaginario dell’artista Giulio Bellutti dà vita a un mondo iperreale, perché della realtà riflette l’aspetto più visionario. Se non si entra all’interno del cerchio magico dove la formula del rituale attiva il prodigio, si viene automaticamente esclusi dalla lettura della sua opera, che da questa formula inequivocabilmente scaturisce. Per entrare e uscire dalla magìa della scena occorre però essere un po’ attori e un po’ maghi, per trasformarsi in seduttori occorre essere stati oggetto di seduzione e Giulio Bellutti non c’è dubbio che sia il primo a subire il fascino del magnetismo dello sguardo, della sacralità simbolica del rosso, dell’abissalità del nero, usato in direzione sontuosa non luttuosa, del mistero insondabile del soggetto, delle movenze del corpo, degli avvolgimenti a spirale della piega, della linea fluente dell’abito. Non è certo casuale la sua dedizione al ritratto. La sua casa, con arredi di un estenuato barocco, e la sua opera si assomigliano, perché rispecchiano il suo stile di vita, la sua passione. Profondità e superficie lo seducono entrambe, quando partecipano di quella scena che da anni, puntualmente, di sera in sera, gli dà convegno, all’ora prestabilita, nella platea del Teatro dell’Opera: a Genova è Il Carlo Felice che lo attende, ma anche i teatri di prosa, per riproporgli l’incantesimo di quello spettacolo che si è impossessato fatalmente del suo immaginario.
La mostra
Ecco da dove nascono I tre enigmi, superbamente raffigurati, su fondo rosso, nelle vesti giallo-oro, rosso e verde di Turandot, trittico del 2004, messo in poesia da Thea De Benedetti. Eccessivi, come sempre li vuole l’artista, per una scelta di gusto che suona anche come omaggio al Lindsay Kemp di Flowers, personalmente incontrato nello storico dopoteatro del genovese 43 Rosso, sono i copricapo a cascata, di piume di struzzo oro, verde, nero, colori cerimoniali di carattere paraliturgico. Altre sorgenti, a cui si alimenta la visionarietà spinta di Giulio Bellutti, sono quelle filmiche del Fellini Satyricon, in particolare, del Ludwig di Visconti, del Settimo Sigillo di Bergman, del Barry Lyndon di Kubrick, del Teatro-Laboratorio di Grotoswki. All’inarrivabile Morticia della Famiglia Addams, sembra rinviare la modella dark della tela, su fondo immancabilmente rosso, di Socrate e tua Sorella, del 2004, dove il filosofo è raffigurato, paradossalmente, dal profilo di un ventenne dalla barba bianca. Il tema dell’identità ritorna negli effetti caravaggeschi dell’opera Al Negar piangente, del 2004, dallo smitizzante titolo in dialetto mantovano, dove è un Narciso di colore che versa lucenti lacrime in uno stagno plumbeo, mentre in Gambastorta con Geisha, sempre del 2004, come può accadere nel taglio incongruo di un tessuto, tra una mezza gamba di un giovane a sinistra e l’altra mezza a destra, di uno stesso soggetto, si produce la generosa scollatura della protagonista giapponesizzante, con acconciatura e trucco Kabuki: il vestito è nero come i capelli. Maestro di effetti teatrali, retorici, emozionali, l’artista trova nella produzione recente, sollecitazioni irresistibili verso un teatro dell’assurdo, del surreale, dell’humour nero, della suspense, come si rileva nella tela L’Assassina, del 2004, dove una seducente modella bionda, dipinta in punta di pennello – l’artista ama ribadirlo - brandisce una lama lucente davanti all’incriminante prova del trofeo di una treccia tagliata, spiraleggiante cadaverino di graffianti fili d’oro, deposto sotto il suo sguardo, acceso dal lampo della colpa. Il rapporto che l’artista intrattiene con soggetti e oggetti è ironico, l’ambiguità della situazione, che tratteggia nelle sue tele, lo diverte tanto quanto è divertito dal fatto di avere degli spettatori di questo scenario di ambiguità. I titoli funzionano come motore dei suoi quadri, che l’autore si prefigura mentalmente. Il più esilarante è Marie Victoire in Ghepardo, ovvero la vera storia di Marie Victoire, del 2005, dove un toro trans realizza il progetto di diventare vacca, con un manto da ghepardo. Più sofisticato, pittoricamente tonale, è il suo Giochi d’Intellettuali in Piscina, dipinto tempo addietro e ripreso nel 2005; più classico nella concezione Le Quattro Stagioni, dove, in quattro tele, un unico protagonista, Angelo, rappresenta nel variare delle modalità espressive e coloristiche forse i diversi momenti di Primavera, Estate, Autunno, Inverno. I suoi personaggi, che siano rappresentati frontalmente o di profilo o ancora di tre quarti, sanno di essere guardati, perché sanno di essere in scena.
Le tredici tele, esposte alla Galleria Agheiro di Lavagna, di grandi e medie dimensioni, segnano un’evoluzione del discorso pittorico di Giulio Bellutti , verso la consapevolezza di un lavoro intorno alla figura come presenza in effige di un soggetto assente, alla qualità di uno sguardo che cerca la complicità dello spettatore, all’artificio di una scena che non cessa di ripetere l’irresistibile seduzione del teatro.
Viana Conti
e un lenzuolo bianco
per ricreare una magìa.
Federico Fellini
Quando la pittura sale in scena
Le seduzioni del palcoscenico, le luci della ribalta, il ciak si gira, per non dire del solenne levarsi del sipario, ineccepibilmente di velluto rosso, ma anche lo scintillìo dei fregi dorati del teatro, rappresentano quegli scenari e quegli attimi, irripetibili, che indicano la soglia al di là della quale l’immaginario dell’artista Giulio Bellutti dà vita a un mondo iperreale, perché della realtà riflette l’aspetto più visionario. Se non si entra all’interno del cerchio magico dove la formula del rituale attiva il prodigio, si viene automaticamente esclusi dalla lettura della sua opera, che da questa formula inequivocabilmente scaturisce. Per entrare e uscire dalla magìa della scena occorre però essere un po’ attori e un po’ maghi, per trasformarsi in seduttori occorre essere stati oggetto di seduzione e Giulio Bellutti non c’è dubbio che sia il primo a subire il fascino del magnetismo dello sguardo, della sacralità simbolica del rosso, dell’abissalità del nero, usato in direzione sontuosa non luttuosa, del mistero insondabile del soggetto, delle movenze del corpo, degli avvolgimenti a spirale della piega, della linea fluente dell’abito. Non è certo casuale la sua dedizione al ritratto. La sua casa, con arredi di un estenuato barocco, e la sua opera si assomigliano, perché rispecchiano il suo stile di vita, la sua passione. Profondità e superficie lo seducono entrambe, quando partecipano di quella scena che da anni, puntualmente, di sera in sera, gli dà convegno, all’ora prestabilita, nella platea del Teatro dell’Opera: a Genova è Il Carlo Felice che lo attende, ma anche i teatri di prosa, per riproporgli l’incantesimo di quello spettacolo che si è impossessato fatalmente del suo immaginario.
La mostra
Ecco da dove nascono I tre enigmi, superbamente raffigurati, su fondo rosso, nelle vesti giallo-oro, rosso e verde di Turandot, trittico del 2004, messo in poesia da Thea De Benedetti. Eccessivi, come sempre li vuole l’artista, per una scelta di gusto che suona anche come omaggio al Lindsay Kemp di Flowers, personalmente incontrato nello storico dopoteatro del genovese 43 Rosso, sono i copricapo a cascata, di piume di struzzo oro, verde, nero, colori cerimoniali di carattere paraliturgico. Altre sorgenti, a cui si alimenta la visionarietà spinta di Giulio Bellutti, sono quelle filmiche del Fellini Satyricon, in particolare, del Ludwig di Visconti, del Settimo Sigillo di Bergman, del Barry Lyndon di Kubrick, del Teatro-Laboratorio di Grotoswki. All’inarrivabile Morticia della Famiglia Addams, sembra rinviare la modella dark della tela, su fondo immancabilmente rosso, di Socrate e tua Sorella, del 2004, dove il filosofo è raffigurato, paradossalmente, dal profilo di un ventenne dalla barba bianca. Il tema dell’identità ritorna negli effetti caravaggeschi dell’opera Al Negar piangente, del 2004, dallo smitizzante titolo in dialetto mantovano, dove è un Narciso di colore che versa lucenti lacrime in uno stagno plumbeo, mentre in Gambastorta con Geisha, sempre del 2004, come può accadere nel taglio incongruo di un tessuto, tra una mezza gamba di un giovane a sinistra e l’altra mezza a destra, di uno stesso soggetto, si produce la generosa scollatura della protagonista giapponesizzante, con acconciatura e trucco Kabuki: il vestito è nero come i capelli. Maestro di effetti teatrali, retorici, emozionali, l’artista trova nella produzione recente, sollecitazioni irresistibili verso un teatro dell’assurdo, del surreale, dell’humour nero, della suspense, come si rileva nella tela L’Assassina, del 2004, dove una seducente modella bionda, dipinta in punta di pennello – l’artista ama ribadirlo - brandisce una lama lucente davanti all’incriminante prova del trofeo di una treccia tagliata, spiraleggiante cadaverino di graffianti fili d’oro, deposto sotto il suo sguardo, acceso dal lampo della colpa. Il rapporto che l’artista intrattiene con soggetti e oggetti è ironico, l’ambiguità della situazione, che tratteggia nelle sue tele, lo diverte tanto quanto è divertito dal fatto di avere degli spettatori di questo scenario di ambiguità. I titoli funzionano come motore dei suoi quadri, che l’autore si prefigura mentalmente. Il più esilarante è Marie Victoire in Ghepardo, ovvero la vera storia di Marie Victoire, del 2005, dove un toro trans realizza il progetto di diventare vacca, con un manto da ghepardo. Più sofisticato, pittoricamente tonale, è il suo Giochi d’Intellettuali in Piscina, dipinto tempo addietro e ripreso nel 2005; più classico nella concezione Le Quattro Stagioni, dove, in quattro tele, un unico protagonista, Angelo, rappresenta nel variare delle modalità espressive e coloristiche forse i diversi momenti di Primavera, Estate, Autunno, Inverno. I suoi personaggi, che siano rappresentati frontalmente o di profilo o ancora di tre quarti, sanno di essere guardati, perché sanno di essere in scena.
Le tredici tele, esposte alla Galleria Agheiro di Lavagna, di grandi e medie dimensioni, segnano un’evoluzione del discorso pittorico di Giulio Bellutti , verso la consapevolezza di un lavoro intorno alla figura come presenza in effige di un soggetto assente, alla qualità di uno sguardo che cerca la complicità dello spettatore, all’artificio di una scena che non cessa di ripetere l’irresistibile seduzione del teatro.
Viana Conti
30
aprile 2005
Giulio Bellutti – …Marie Victoire in Ghepardo, ovvero la vera storia…
Dal 30 aprile al 30 maggio 2005
arte contemporanea
Location
GALLERIA AGHEIRO
Lavagna, Corso Buenos Ayres, 60, (Genova)
Lavagna, Corso Buenos Ayres, 60, (Genova)
Orario di apertura
dal martedì al sabato 16-20 o su appuntamento
Vernissage
30 Aprile 2005, ore 18
Autore
Curatore




