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Christiane Löhr – Ciò che tiene insieme il mondo
L’opera di Christiane Löhr solleva affascinanti problemi intorno a due punti fondamentali di ciò che chiamiamo scultura: le dimensioni e la consistenza fisica
Comunicato stampa
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L’opera di Christiane Löhr solleva affascinanti problemi intorno a due punti fondamentali di ciò che chiamiamo scultura: le dimensioni e la consistenza fisica. Può una scultura, una scultura significativa, misurare cinque centimetri di altezza? Si può sviluppare un serio lavoro scultoreo su una scala di proporzioni tale, che su di essa un millimetro sia una dimensione rilevante, senza scadere nel virtuosismo fine a se stesso? Si può chiamare “scultura” un oggetto tanto delicato che un soffio basta a danneggiarlo? La risposta, relativamente agli affascinanti lavori di Christiane Löhr, è senz’altro “si”.
L’origine della questione sta nei materiali di cui sono fatte le sue sculture: principalmente semi di varie specie vegetali (cardo, edera, canna, bardana, agrimonia, perfino il dente di leone, con i suoi impalpabili soffioni); poi fiori, gambi e steli di altre piante; e ancora, crini di cavallo e peli di cane. Materiali che l’artista raccoglie dove capita, in campagna o sul ciglio di una strada cittadina, e poi separa, ordina, essicca. Infine, con minuziosa pazienza, li compone in strutture geometriche regolari. Non usa colla né alcun tipo di legante. La coesione delle parti deriva da intrecci e minuscoli nodi (come nel caso dei crini di cavallo), o dal fatto che sono infisse in forellini praticati nella base di legno, o semplicemente dal loro accostamento. I semi di bardana, ad esempio, grazie a invisibili uncini sono solidali gli uni agli altri come i pezzi di un gioco di costruzioni; i semi di edera, dalla caratteristica forma a stella, possono essere accumulati in monticelli regolari, che fino a un certo punto - un punto che l’artista determina con grande precisione – mantengono la forma voluta, senza franare; i leggerissimi, volatili semi di canna sono trattenuti al loro posto da invisibili reticelle di nylon; i soffioni che compongono la grande opera che apre questa mostra, infine, sono stati semplicemente lasciati cadere sul pavimento, lasciando che ognuno trovasse la propria giusta collocazione rispetto agli altri.
Bastano questi pochi cenni per dare già l’idea di un mondo di gesti minuziosi e precisi, da orologiaio o entomologo, da persona china su oggetti tanto piccoli quanto delicati e preziosi. Anche se possono arrivare a misurare alcuni metri, le sculture di Christiane Löhr sono spesso così piccole da stare nel palmo di una mano. Sono microcosmi i cui dettagli diventano visibili solo a distanza ravvicinata, da pochi centimetri addirittura. È allora che si possono apprezzare la grana della materia, le nitide giunzioni fra le parti, le texture regolari a cui queste danno origine. L’opera sollecita paragoni con il mondo che sta oltre la soglia del visibile: vengono in mente ingrandimenti al microscopio di fibre vegetali, oppure le eleganti simmetrie di formazioni minerali. Un oggetto di pochi centimetri può sembrare allora enorme, rispetto alla dimensione microscopica a cui ci ha fatto accedere con l’immaginazione.
Casella di testo: Piccola coppa di crine, 2005, crine di cavallo,aghi, 4 x 5 x 5 cm
Ma si può anche fare un passo indietro, e osservare queste sculture da un metro di distanza. In questo modo prende rilievo la loro forma complessiva, e il termine di paragone diventa l’architettura.
Appaiono guglie, torri, minareti, antichi templi o architetture contemporanee. I titoli (Piccola torre, Piccola cupola, ecc.), confermano e rafforzano la suggestione. La prospettiva e la scala si invertono all’improvviso, vertiginosamente: ora abbiamo l’impressione di guardare non il microscopico ma il colossale, un oggetto di decine o centinaia di metri, e la distanza che ci separa da esso diventa quella di chi lo osserva dalla cima di un monte. Tutte le proporzioni della mostra – studiate personalmente dall’artista con la massima cura – si dilatano a dismisura: la lunghezza della galleria sembra ora quella di un viaggio aereo, i profili dei lavori di semi di edera, riuniti insieme su una base bianca, diventano quelli di catene montuose. In questo continuo invertirsi della prospettiva dal minimo al massimo e viceversa, come se stessimo osservando lo stesso oggetto ora da un’estremità ora dall’altra di un cannocchiale, deriva un senso di disorientamento che alla fine lascia le opere in un punto indefinito della scala di grandezza, come se lo spazio intorno ad esse si sfuocasse e non permettesse più paragoni fra l’oggetto e ciò che gli sta accanto. È un motivo – uno dei meno evidenti, ma non dei meno importanti – del fascino di queste sculture.
Un altro motivo di fascino, forse il più immediato, sta proprio nella fragilità dei materiali e quindi delle opere stesse. La raccomandazione che spesso fa l’artista, quella di non soffiarvi sopra, non è esagerata: nel caso dei lavori realizzati con i pappi del dente di leone, un soffio può essere davvero fatale. Ma ciò che è davvero avvincente, che costituisce la vera sfida, è il fatto che queste opere sono pensate per durare. Può sembrare un paradosso, ma è così. “Fragile” qui non è sinonimo di “effimero”, come accade ad esempio - per citare un’altra artista che impiega sistematicamente materiali organici - nei lavori di Anya Gallaccio, che si corrompono e dissolvono in poche ore, e che proprio in questa rapida decadenza trovano la loro bellezza. Fragile, in rapporto a queste opere, significa qualcosa che richiede cura e precauzioni, che deve essere protetto, ma non necessariamente deperibile. Certo, un delicato intreccio di crini di cavallo tesi fra aghi (questa mostra allinea un’intera serie di queste opere) non sopravviverà al proverbiale bronzo; ma, adeguatamente conservato, può vivere molto a lungo. Quanto? Non è facile dirlo. L’artista cita l’esempio di alcuni erbari medievali in cui le piante, perfettamente essiccate, sono ancora integre. È una questione di delicatezza: la delicatezza estrema che l’artista mette nella creazione dei propri lavori, la delicatezza che deve avere chi li custodisce. È proprio questo atteggiamento, forse, l’affinità più profonda che lega l’opera della Löhr a quella di Wolfgang Laib, un artista da lei molto stimato. I sublimi quadrati di polline di Laib, come molte delle sculture della Löhr, introducono chi li contempla in un universo in cui la fragilità non è un limite, ma un attributo imprescindibile della bellezza, al quale si può accedere solo diventando capaci della stessa delicatezza dell’artista.
Abbiamo parlato di scala e di fragilità; per concludere, possiamo accennare al problema della forma, il più complesso di tutti, tanto che è impossibile esaurirlo in poche righe. Le sculture create da Christiane Löhr prendono spunto dalla Casella di testo: Piccolo ciondolo, 2004, fiori d’albero, 8,5 x 6,5 x 2,5 cmstruttura stessa di ciò che le compone, steli, infiorescenze, semi, ma si svincolano presto da questi riferimenti per raggiungere una dimensione più vasta, che appartiene, come abbiamo visto, tanto all’architettura quanto al mondo microscopico. (I suoi disegni, semplici segni neri su bianco, rendono chiaramente visibile questo processo di astrazione; in alcuni il motivo vegetale originario – un intrico di rami, quasi sempre – è riconoscibile, in altri diventa un viluppo di linee che trova in se stesso la propria ragione di essere). Qual è questa dimensione? Qual è il minimo comun denominatore fra l’infimo e il colossale, che conferisce a queste forme l’aspetto di qualcosa di esatto, qualcosa che non potrebbe essere altrimenti che così? In uno scritto recente, l’artista dice di essere sempre più attratta dalle proprietà intrinseche delle figure geometriche: “c’è un’enorme differenza nell’essenza stessa di un pentagono o di un esagono: la forma esagonale è maggiormente soggetta alla dissoluzione a causa della sua divisibilità”. Lascia così intravedere una visione immanente, da architetto, in cui ogni linea di un progetto deve passare per il duro banco di prova della lotta fra materia e forza di gravità, nel gioco delle spinte e controspinte. Ed è un banco di prova, questo, che vale tanto per una costruzione di pietra o cemento quanto per una di semi di dente di leone. Poi, però, l’artista aggiunge: “A me interessano gli effetti tangibili delle regole geometriche perché sono espressione visiva dell’immateriale e dello spirituale”. L’immateriale e lo spirituale. Se di architettura si deve parlare, sarà allora quella religiosa, che sia cristiana oppure indù, citata infatti dall’artista poche righe prima. Come accennavamo a proposito dei paragoni architettonici, le forme di edifici religiosi tradizionali – cattedrali, templi - a volte compaiono in queste piccole sculture: alcune di esse (quelle costruite con semi di edera) si intitolano esplicitamente Piccolo tempio. Il discorso, da immanente, si fa trascendente. E difficile da approfondire, almeno qui. Conviene lasciarlo solo accennato. La conclusione, naturalmente provvisoria, spetta all’artista: “Forse sono alla ricerca di ciò che tiene insieme il mondo”.
Simone Menegoi, marzo 2005
L’origine della questione sta nei materiali di cui sono fatte le sue sculture: principalmente semi di varie specie vegetali (cardo, edera, canna, bardana, agrimonia, perfino il dente di leone, con i suoi impalpabili soffioni); poi fiori, gambi e steli di altre piante; e ancora, crini di cavallo e peli di cane. Materiali che l’artista raccoglie dove capita, in campagna o sul ciglio di una strada cittadina, e poi separa, ordina, essicca. Infine, con minuziosa pazienza, li compone in strutture geometriche regolari. Non usa colla né alcun tipo di legante. La coesione delle parti deriva da intrecci e minuscoli nodi (come nel caso dei crini di cavallo), o dal fatto che sono infisse in forellini praticati nella base di legno, o semplicemente dal loro accostamento. I semi di bardana, ad esempio, grazie a invisibili uncini sono solidali gli uni agli altri come i pezzi di un gioco di costruzioni; i semi di edera, dalla caratteristica forma a stella, possono essere accumulati in monticelli regolari, che fino a un certo punto - un punto che l’artista determina con grande precisione – mantengono la forma voluta, senza franare; i leggerissimi, volatili semi di canna sono trattenuti al loro posto da invisibili reticelle di nylon; i soffioni che compongono la grande opera che apre questa mostra, infine, sono stati semplicemente lasciati cadere sul pavimento, lasciando che ognuno trovasse la propria giusta collocazione rispetto agli altri.
Bastano questi pochi cenni per dare già l’idea di un mondo di gesti minuziosi e precisi, da orologiaio o entomologo, da persona china su oggetti tanto piccoli quanto delicati e preziosi. Anche se possono arrivare a misurare alcuni metri, le sculture di Christiane Löhr sono spesso così piccole da stare nel palmo di una mano. Sono microcosmi i cui dettagli diventano visibili solo a distanza ravvicinata, da pochi centimetri addirittura. È allora che si possono apprezzare la grana della materia, le nitide giunzioni fra le parti, le texture regolari a cui queste danno origine. L’opera sollecita paragoni con il mondo che sta oltre la soglia del visibile: vengono in mente ingrandimenti al microscopio di fibre vegetali, oppure le eleganti simmetrie di formazioni minerali. Un oggetto di pochi centimetri può sembrare allora enorme, rispetto alla dimensione microscopica a cui ci ha fatto accedere con l’immaginazione.
Casella di testo: Piccola coppa di crine, 2005, crine di cavallo,aghi, 4 x 5 x 5 cm
Ma si può anche fare un passo indietro, e osservare queste sculture da un metro di distanza. In questo modo prende rilievo la loro forma complessiva, e il termine di paragone diventa l’architettura.
Appaiono guglie, torri, minareti, antichi templi o architetture contemporanee. I titoli (Piccola torre, Piccola cupola, ecc.), confermano e rafforzano la suggestione. La prospettiva e la scala si invertono all’improvviso, vertiginosamente: ora abbiamo l’impressione di guardare non il microscopico ma il colossale, un oggetto di decine o centinaia di metri, e la distanza che ci separa da esso diventa quella di chi lo osserva dalla cima di un monte. Tutte le proporzioni della mostra – studiate personalmente dall’artista con la massima cura – si dilatano a dismisura: la lunghezza della galleria sembra ora quella di un viaggio aereo, i profili dei lavori di semi di edera, riuniti insieme su una base bianca, diventano quelli di catene montuose. In questo continuo invertirsi della prospettiva dal minimo al massimo e viceversa, come se stessimo osservando lo stesso oggetto ora da un’estremità ora dall’altra di un cannocchiale, deriva un senso di disorientamento che alla fine lascia le opere in un punto indefinito della scala di grandezza, come se lo spazio intorno ad esse si sfuocasse e non permettesse più paragoni fra l’oggetto e ciò che gli sta accanto. È un motivo – uno dei meno evidenti, ma non dei meno importanti – del fascino di queste sculture.
Un altro motivo di fascino, forse il più immediato, sta proprio nella fragilità dei materiali e quindi delle opere stesse. La raccomandazione che spesso fa l’artista, quella di non soffiarvi sopra, non è esagerata: nel caso dei lavori realizzati con i pappi del dente di leone, un soffio può essere davvero fatale. Ma ciò che è davvero avvincente, che costituisce la vera sfida, è il fatto che queste opere sono pensate per durare. Può sembrare un paradosso, ma è così. “Fragile” qui non è sinonimo di “effimero”, come accade ad esempio - per citare un’altra artista che impiega sistematicamente materiali organici - nei lavori di Anya Gallaccio, che si corrompono e dissolvono in poche ore, e che proprio in questa rapida decadenza trovano la loro bellezza. Fragile, in rapporto a queste opere, significa qualcosa che richiede cura e precauzioni, che deve essere protetto, ma non necessariamente deperibile. Certo, un delicato intreccio di crini di cavallo tesi fra aghi (questa mostra allinea un’intera serie di queste opere) non sopravviverà al proverbiale bronzo; ma, adeguatamente conservato, può vivere molto a lungo. Quanto? Non è facile dirlo. L’artista cita l’esempio di alcuni erbari medievali in cui le piante, perfettamente essiccate, sono ancora integre. È una questione di delicatezza: la delicatezza estrema che l’artista mette nella creazione dei propri lavori, la delicatezza che deve avere chi li custodisce. È proprio questo atteggiamento, forse, l’affinità più profonda che lega l’opera della Löhr a quella di Wolfgang Laib, un artista da lei molto stimato. I sublimi quadrati di polline di Laib, come molte delle sculture della Löhr, introducono chi li contempla in un universo in cui la fragilità non è un limite, ma un attributo imprescindibile della bellezza, al quale si può accedere solo diventando capaci della stessa delicatezza dell’artista.
Abbiamo parlato di scala e di fragilità; per concludere, possiamo accennare al problema della forma, il più complesso di tutti, tanto che è impossibile esaurirlo in poche righe. Le sculture create da Christiane Löhr prendono spunto dalla Casella di testo: Piccolo ciondolo, 2004, fiori d’albero, 8,5 x 6,5 x 2,5 cmstruttura stessa di ciò che le compone, steli, infiorescenze, semi, ma si svincolano presto da questi riferimenti per raggiungere una dimensione più vasta, che appartiene, come abbiamo visto, tanto all’architettura quanto al mondo microscopico. (I suoi disegni, semplici segni neri su bianco, rendono chiaramente visibile questo processo di astrazione; in alcuni il motivo vegetale originario – un intrico di rami, quasi sempre – è riconoscibile, in altri diventa un viluppo di linee che trova in se stesso la propria ragione di essere). Qual è questa dimensione? Qual è il minimo comun denominatore fra l’infimo e il colossale, che conferisce a queste forme l’aspetto di qualcosa di esatto, qualcosa che non potrebbe essere altrimenti che così? In uno scritto recente, l’artista dice di essere sempre più attratta dalle proprietà intrinseche delle figure geometriche: “c’è un’enorme differenza nell’essenza stessa di un pentagono o di un esagono: la forma esagonale è maggiormente soggetta alla dissoluzione a causa della sua divisibilità”. Lascia così intravedere una visione immanente, da architetto, in cui ogni linea di un progetto deve passare per il duro banco di prova della lotta fra materia e forza di gravità, nel gioco delle spinte e controspinte. Ed è un banco di prova, questo, che vale tanto per una costruzione di pietra o cemento quanto per una di semi di dente di leone. Poi, però, l’artista aggiunge: “A me interessano gli effetti tangibili delle regole geometriche perché sono espressione visiva dell’immateriale e dello spirituale”. L’immateriale e lo spirituale. Se di architettura si deve parlare, sarà allora quella religiosa, che sia cristiana oppure indù, citata infatti dall’artista poche righe prima. Come accennavamo a proposito dei paragoni architettonici, le forme di edifici religiosi tradizionali – cattedrali, templi - a volte compaiono in queste piccole sculture: alcune di esse (quelle costruite con semi di edera) si intitolano esplicitamente Piccolo tempio. Il discorso, da immanente, si fa trascendente. E difficile da approfondire, almeno qui. Conviene lasciarlo solo accennato. La conclusione, naturalmente provvisoria, spetta all’artista: “Forse sono alla ricerca di ciò che tiene insieme il mondo”.
Simone Menegoi, marzo 2005
14
aprile 2005
Christiane Löhr – Ciò che tiene insieme il mondo
Dal 14 aprile al 28 maggio 2005
arte contemporanea
Location
GALLERIA SALVATORE + CAROLINE ALA
Milano, Via Monte Di Pietà, (Milano)
Milano, Via Monte Di Pietà, (Milano)
Orario di apertura
dal martedì al sabato 10-19
Vernissage
14 Aprile 2005, ore 18-21
Autore




