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A Pompei, tra fave, pesci e allevamenti suini: la dieta che racconta una civiltà
Archeologia
di redazione
Cosa mangiavano davvero gli abitanti dell’antica Pompei? E poi, come lo mangiavano? Ma anche, in che modo il cibo arrivava nel triclinium, la sala da pranzo delle domus? A queste e altre domande su quella che oggi chiameremo “filiera del food”, prova a rispondere uno studio recentemente pubblicato su Scientific Reports, che intreccia archeologia e chimica per condurre un’ampia analisi delle pratiche agricole, zootecniche e alimentari diffuse nell’antica città distrutta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.
La ricerca nasce dalla collaborazione tra il Laboratorio Annamaria Ciarallo del Parco di Pompei, il Laboratorio DistaBiF dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli, l’Università La Sapienza di Roma e l’Università di York, e parte da una risorsa che gli scavi continuano a restituire con generosità: la materia organica. Sementi carbonizzate, ossa animali, residui alimentari. Una Pompei quotidiana e fissata per sempre in una drammatica istantanea, che si rivela oggi straordinaria per la quantità di dati nascosti e ben conservati sotto la cenere.
Piccoli isotopi, grandi storie
Gli scienziati hanno analizzato gli isotopi stabili del carbonio e dell’azoto in 47 campioni vegetali (cereali, legumi, frutti, pane, olio) e 56 animali (erbivori, suini, pollame, pesci). Il principio è semplice: questi isotopi si comportano come tracce chimiche che, una volta interpretate, rivelano i regimi alimentari e ambientali delle specie analizzate. Un modo per leggere ciò che non è più osservabile, almeno a prima vista, ma di cui si trova una traccia anche in fonti antiche “specializzate”, come nei testi degli eruditi e agronomi Columella e Varrone.
Il risultato è una mappa intricata di pratiche agricole e zootecniche, molto più variegata di quanto si potesse pensare. Le fave, per esempio, crescevano in campi ben irrigati, probabilmente locali, mentre le lenticchie si coltivavano in ambienti aridi e forse venivano da più lontano. Anche tra i cereali si registrano differenze: l’orzo meglio idratato del grano, suggerendo campi con accesso all’acqua differenziato o provenienze diverse.
Una zootecnia non standardizzata
Gli animali, poi, raccontano un altro capitolo della dieta pompeiana. Pecore e capre mostrano segnali distinti, confermando gestioni separate e forse pascoli dedicati. Ma sono i suini a sorprendere: la loro dieta risulta estremamente variabile, segno di un’alimentazione che includeva scarti, pastura e forse anche una certa “creatività” contadina. Non meno cura era riservata ai polli, che si nutrivano, pare, di piante C4, come il miglio, forse appositamente coltivate per loro.
E poi c’è la fauna ittica: tonni, orate, mormore, murene. Alcuni provenivano da acque profonde, altri da lagune costiere o allevamenti. I valori isotopici raccontano un sfruttamento intensivo e variegato delle risorse marine, come già riportano fonti antiche. Un “mare nostrum” che arrivava fin sulle tavole pompeiane in molte forme.
E la dieta?
Ma lo scopo ultimo dello studio era ricostruire la dieta umana. E qui emergono i limiti: nonostante la mole di dati, gli isotopi “bulk” del collagene umano non permettono di distinguere con certezza quanta parte della dieta derivasse da cereali, legumi, frutta, carne o pesce. Gli intervalli di stima restano troppo ampi per conclusioni definitive. Gli scienziati parlano di equifinalità, quando dati diversi portano a risultati simili e difficili da separare.
Per questo, gli studiosi indicano la necessità di metodi più avanzati – come l’analisi isotopica di specifici composti – già applicati con successo a Ercolano, per decifrare il contributo reale delle diverse fonti alimentari.
Pompei come laboratorio permanente
«La ricerca continua anche dopo lo scavo; anzi, come mostra questo studio, un attento esame di testimonianze portate alla luce anche tempo fa, grazie all’uso di analisi e metodologie nuove, ci apre interi orizzonti di cui prima non avevamo idea», ha dichiarato Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco Archeologico di Pompei. «Se un terzo della città antica di Pompei è ancora non scavato, la mole di dati potenzialmente ricavabile da analisi come queste non è nemmeno quantificabile, perché dipende dal progresso tecnologico e metodologico in corso. Sicuramente investiremo ancora nello studio dei resti umani e dei materiali organici a Pompei che riservono ancora molti segreti da svelare».
Pompei insomma si conferma come una vera piattaforma di ricerca contemporanea, non solo per i numerosi progetti d’arte che vi si situano, come nel caso del recente progetto di Cerith Wyn Evans nell’ambito del programma Pompeii Commitment. Come raccontato in una mostra chiusa pochi mesi fa, L’altra Pompei. Vite comuni all’ombra del Vesuvio, le testimonianze superstiti parlano di vita quotidiana, di scelte, di culture materiali e immateriali. In una parola, di civiltà. Non così distante dalla nostra.