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Alla Fabbrica del Vapore sette episodi per raccontare Milano
Architettura
Oggi Milano continua a crescere e a reinventarsi, ma la sua identità non è mai lineare: alle spinte creative si intrecciano tensioni e contraddizioni che spesso mettono alla prova proprio quella libertà di cui si vorrebbe simbolo.
La mostra si articola in sette installazioni, ognuna della durata di 21 giorni, ospitate nella Sala delle Colonne: 200 metri quadrati di open space scandito da colonne in ghisa, trasformati in uno spazio mutevole e in continuo rinnovamento. Ogni episodio mette al centro figure, linguaggi ed esperienze che hanno segnato la storia culturale di Milano.
Il progetto attraversa scrittori, designer, artisti, registi e intellettuali che hanno letto e interpretato la città, anticipandone i cambiamenti. Un mosaico che mescola letteratura, arte, teatro, comunicazione e design per restituire il ritratto di una Milano di cui un po’ sentiamo la mancanza: frizzantina, verace e autentica.

Il percorso ha preso il via a luglio 2025 e si concluderà a gennaio 2026. Alcuni episodi sono già archiviati: dal 14 luglio al 3 agosto si è aperto con Elio Vittorini. Progettazione e letteratura (a cura di Fabio Vittucci), seguito dall’11 al 31 agosto da Giovanni Testori e i Segreti di Milano: il caso dell’Arialda (a cura di Federica Mazzocchi). In queste prime due tappe, la mostra ha acceso i riflettori dapprima sul rapporto tra letteratura e progettazione, poi sul cuore più ruvido e autentico della città raccontato da Testori.
Dall’8 al 28 settembre è ora visitabile la terza installazione, dedicata a Licalbe Steiner. Ricerche (a cura di Giovanni Baule e Anna Steiner). Seguiranno, tra ottobre e novembre, un approfondimento sul Laboratorio di Comunicazione Militante del 1976 e un affresco sugli anni Ottanta a Milano, fino ad arrivare a dicembre con l’omaggio a Paolo Rosa e, infine, a gennaio 2026 con l’installazione dedicata a Maria Spinatelli.
Una novità importante è la possibilità di fruire ogni tappa anche in telepresenza robotica, grazie al Robot Double 3, che permette ai visitatori da remoto di muoversi nello spazio espositivo in tempo reale. Una scelta che allarga il pubblico ma che al tempo stesso apre riflessioni su come cambia il rapporto tra corpo, spazio e esperienza culturale.

Testori e l’immaginario perduto: uno nella Milano che non vediamo più
L’episodio dedicato a Giovanni Testori – che ho avuto modo di visitare – è certamente uno dei più significativi. L’installazione curata da Federica Mazzocchi mette al centro Giovanni Testori e i Segreti di una Milano che oggi si fatica a riconoscere, fatta di atmosfere ruvide e al tempo stesso vitali. Giovanni Testori (1923-1993) è stato scrittore, drammaturgo ed eccelso narratore della Milano di periferia. Il suo corpus letterario include il ciclo dei “Segreti di Milano” con opere come Il Dio di Roserio (1954) e La Maria Brasca, il poema I Trionfi (1965), la “Trilogia degli scarrozzanti”, per il teatro (L’Ambleto, Macbetto, Edipus) e gli oratori sacri come Conversazione con la morte (1978), Interrogatorio a Maria (1979) e I Promessi sposi alla prova (1984).
Su Milano e di Milano scrisse pagine indimenticabili, restituendone le periferie brulicanti ne Il Dio di Roserio, le esistenze femminili fiere e contraddittorie ne La Maria Brasca, le famiglie popolari ne Il fabbricone (1961), i drammi domestici ne L’Arialda (1960), fino ai racconti più spietati e insieme lirici come Il ponte della Ghisolfa (1958). Con i suoi “Segreti di Milano” dipinse un affresco urbano che non indulge mai nel pittoresco, ma coglie il respiro autentico e contraddittorio della città.
Ma è proprio con L’Arialda, al centro della narrazione dell’installazione, che Testori si scontrò con la censura del suo tempo, in una vicenda che ancora oggi ci parla con forza.


La battaglia dell’Arialda: quando l’arte sfida il potere
L’Arialda, scritta nel 1960, doveva consacrare il sodalizio artistico tra Testori e Luchino Visconti. Debuttò al Teatro Eliseo di Roma il 22 dicembre 1960 con un cast straordinario: Rina Morelli, Paolo Stoppa, Umberto Orsini, Pupella Maggio e Lucilla Morlacchi. Ma arrivarci fu un percorso a ostacoli.
Prima bloccata dalla censura ministeriale, tagliata, rielaborata e infine autorizzata solo per i maggiori di 18 anni, L’Arialda riuscì a collezionare una cinquantina di repliche romane prima di essere cancellata a Milano, dopo una sola recita nel febbraio 1961. In totale, il testo subì una settantina di tagli imposti da un governo che lo bollava come osceno.
La Democrazia Cristiana al potere controllava fortemente i costumi e la cultura pubblica, e le tematiche omosessuali dell’opera, unite alla lingua cruda e alla rappresentazione senza filtri dell’umanità, furono giudicate inaccettabili. Visconti denunciò quello che oggi chiameremmo censura preventiva, ma la macchina burocratica era implacabile. La battaglia legale si trascinò fino al 23 aprile 1964, quando il Tribunale di Roma assolse Testori e l’editore Feltrinelli.
Atti dovuti: ieri come oggi
A proposito di atti dovuti e censura, La vicenda dell’Arialda continua a parlarci perché mette a nudo un meccanismo che non cambia mai davvero: ogni epoca trova le proprie formule per dire cosa si può dire e cosa no. Allora si bollava come “immorale”, oggi si invoca l’“opportunità politica” o la “correttezza diplomatica”, ma la sostanza resta invariata: la libertà di espressione è la prima a pagare. In questo senso ricordare Testori non è un esercizio di memoria, ma un invito a riconoscere le forme più sottili di conformismo e autocensura che attraversano il presente.
E qui entra in gioco Milano. Parlare della città soltanto come di un laboratorio instancabile di creatività rischia di apparire retorico se non si tiene conto delle ombre che ne limitano la spinta innovativa. Negli ultimi anni – e forse in modo più evidente in temi molto recenti– la cronaca ci ha restituito una città attraversata da tensioni sociali, nodi irrisolti, contraddizioni che non possono essere ignorate. Milano continua a produrre energia culturale, ma lo fa dentro una cornice meno lineare di quanto amiamo raccontare.
Per questo “La città che sale” non è solo un titolo evocativo, ma un monito: la città cresce davvero quando sa accogliere le sue contraddizioni, quando non teme voci scomode, quando trasforma fragilità e conflitti in nuove possibilità. Non è lo skyline a definirne la vitalità, ma la capacità di restare un laboratorio vivo, dove ogni voce trova ascolto e ogni differenza diventa risorsa. Un luogo che non seleziona, ma accoglie, trasformando i margini in centro e l’ordinario in possibilità condivisa. È questa tensione, non la patina del progresso, a restituire il ritmo della Milano che conta: la stessa energia irregolare e impetuosa che Boccioni aveva intrappolato nel vortice delle pennellate della sua tela.















