03 giugno 2023

Affinità tra opere d’arte, nel segno della Blackness: tre mostre da scoprire a Parigi

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Da Faith Ringgold alle maschere tradizionali Songye, passando per i capelli di Laetitia Ky: a Parigi, tre mostre ripercorrono le tappe della cultura blackness. Ne parliamo con il curatore Mo Laudi

Faith Ringgold, Picasso’s Studio, The French Collection Part I, 1991

Libere e svincolate dai codici espositivi, le creazioni di tutti i tempi oltrepassano gli spazi fisici per tessere insieme ricchi e trasparenti dialoghi. È delineato qui un percorso nella creazione contemporanea tra attivismo politico, autoritratti, acconciature, maschere, fotografie, sculture e pitture che, formalmente distanti loro, costruiscono altresì universi intriganti e parlanti. Dove? A Parigi, che ospita una bella mostra dedicata a Faith Ringgold (New York, 1930), una personale di Laetitia Ky (Abidjan, 1996), “Globalisto. Fragments of Community”, una collettiva a cura di Ntshepe Tsekere Bopape (Sudafrica, 1980) in arte Mo Laudi. Ma non solo.

Il primo fil rouge è quello dell’autoritratto, un genere artistico sviluppato nella pittura sin dall’epoca rinascimentale che ritroviamo oggi più spesso nella fotografia contemporanea. Partendo dalla semplice descrizione dei propri caratteri fisici e da pose che palesano uno status quo, l’artista rivendica un posto nella società affermando al contempo una scelta stilistica. Lo ritroviamo in “Faith Ringgold. Black is beautiful” presso il Musée national Picasso-Paris, fino al 2 luglio, un percorso dedicato all’attivista africana-americana Faith Ringgold che principia proprio con Early Works #25: Self Portrait (1965, olio su tela, Brooklyn Museum).

Faith Ringgold, Early Works #25 Self Portrait
Faith Ringgold, Slave Rape #2, Run You Might Get Away

Questo autoritratto – sulla scia della nota serie American People (1963-65) intorno al tema del razzismo quotidiano – è un’affermazione di sé come un atto di forza e di protesta. L’artista qui domina la tela, le braccia conserte, con lo sguardo rivolto altrove, riflessivo e profondo, si fa portavoce di valori sociali dando al contempo piena visibilità alla donna nera. Ricordiamo che Ringgold ha militato per i diritti civili, nel movimento Black Power e faceva parte del Black Arts Movement, era dunque importante per lei rappresentarsi attraverso l’arte – anche se controcorrente poiché l’astrazione era lo stile di pittura più popolare di quel periodo. Sono anni importanti che lei ricorda così: «Non riesco a pensare a un periodo più liberatorio nella mia vita degli anni ‘60. Fu allora che imparai a portare i capelli al naturale! Niente più pettini caldi tra i capelli. Black Is Beautiful, Black Pride e Black Power in un solo gesto».

Faith Ringgold, American People Series 18, The Flag Is Bleeding, 1967
Faith Ringgold, American People Series 20 Die, 1967

Autoritratto e capelli anche in Who’s that woman?, una personale della fotografa, attrice e attivista ivoriana Laetitia Ky, in mostra presso la nuova sede parigina della Lis10 Gallery di Arezzo, fino al 24 giugno. L’artista si trasforma qui secondo la tradizionale arte della performance in una scultura vivente su uno sfondo minimalista, dove i capelli diventano uno strumento di comunicazione possente. Simbolo della sua identità e della black beauty, Laetitia Ky si ispira da foto d’archivio di acconciature di donne africane per realizzarle poi con l’ausilio del fango, denunciando attraverso parole, simboli e immagini le discriminazioni di genere. Ricordiamo che l’artista ha rappresentato il suo paese alla 59ma Biennale d’Arte di Venezia ed è attualmente presente nella collettiva “Des cheveux et de poils”, un’esposizione imperdibile al Musée des Arts Décoratifs di Parigi, fino al 17 settembre.

Who’s that woman, Laetitia Ky, Lis10 Gallery, Parigi
Who’s that woman, Laetitia Ky, Lis10 Gallery, Parigi
Who’s that woman, Laetitia Ky, Lis10 Gallery, Parigi

Pettinatura e ritratto anche con Hélène Jayet (1977, Montpellier), artista visiva e fotografa, il cui lavoro si piazza tra intimità, storia e memoria, ad oggi presente in “Globalisto, Fragments of Community”. Si tratta di una collettiva che richiama la filosofia Globalisto, vicina agli ideali umanistici dell’Ubuntu basati sul rispetto e la condivisione. La mostra è visitabile fino al 17 giugno presso lo spazio parigino 31 Project, dedicato alla scena artistica africana, dove Jayet presenta un lavoro sull’identità africana, parte della serie fotografica di 180 ritratti Colored Only – Chin Up!, cioè a testa alta. Esposti già in diversi paesi, questi scatti ritraggono persone afro-discendenti con acconciature diverse e in posa rigorosamente chin-up, appunto, segno orgoglioso di appartenenza e di resistenza.

La maschera è un altro filo conduttore da esplorare. Imprescindibile dalla cultura africana e meno utilizzata oggi a causa dell’urbanizzazione e di influenze esterne, questa rimanda alla creatività come alla ritualità, incarnando un legame con antenati mitici. La ritroviamo nel lavoro di Obi Okigbo (1964, Ibadan) o in quello di Kendell Geers (1968, Johannesburg) di cui vediamo Masking Tradition DXII (2017) in dialogo con Songye mask-maker in “Globalisto. Fragments of Community”.

Per saperne di più ne abbiamo parlato con Mo Laudi, curatore della mostra, artista multidisciplinare, pioniere dell’afro-elettro e DJ.

Foto di Helen Jayet, Globalisto. Fragments of Community

Perché hai deciso di esporre una maschera Songye?

«L’inclusione di una maschera Songye serve a evidenziare il DNA della galleria e l’impegno della filosofia Globalisto a sfidare i canoni stabiliti della storia dell’arte. Riferendosi al creatore come un anonimo artista Songye, si evidenzia la cancellazione dei nomi e il mancato riconoscimento degli artisti africani durante il periodo coloniale. Questa scelta sottolinea la mancanza di visibilità dei contributi degli artisti africani alla storia dell’arte mondiale e mira a colmare il divario tra l’arte occidentale e le forme artistiche africane».

Ma c’è dell’altro?

«Sì! La mostra mira a esplorare la dispersione e la frammentazione delle comunità attraverso la migrazione, mostrando l’interconnessione tra il popolo Songye e le comunità fino al Sudafrica. Questo filo tematico aiuta a contestualizzare la maschera Songye all’interno di una narrazione più ampia di scambi e influenze culturali»

Ci puoi parlare del tuo lavoro “Picasso stole my Swag”?

«È un’altra componente significativa della mostra, che affronta le discussioni in corso nel mondo dell’arte sull’appropriazione e l’incorporazione delle forme d’arte africane nell’arte occidentale. Interagendo con queste conversazioni, si vuole contribuire al discorso attuale in modo significativo. Viene esplorata l’influenza di maschere, simboli e rituali africani su artisti come Basquiat o Jean Charles Castelbajac, evidenziando il significato culturale e il simbolismo che questi elementi portano al loro lavoro. C’è anche il lavoro di Kendell Geers Twilight of the idols 8690, che riflette il ruolo dell’artista nel facilitare le conversazioni contemporanee su questi temi».

Chéri Samba, Quand il n’y avait plus rien d’autre que…L’Afrique restait une pensée, 1997, Acrylique sur toile Photo © Florian Kleinefenn. Courtesy Galerie MAGNIN-A

Non solo Picasso, dunque.

«Nel contesto di altri eventi come quelli che commemorano la morte di Picasso, l’inclusione qui del lavoro di Obi Okigbo – che mescola maschere, oggetti e manufatti al Museo Picasso – rafforza il legame con il tema generale di questa esposizione. Questa inclusione dimostra l’impegno della galleria nell’affrontare la travagliata eredità di artisti come Picasso e nel rivalutare il loro impatto sul mondo dell’arte».

Attualmente, alcune opere di Obi Okigbo, tra cui il bellissimo trittico Landscapes of my Childhood Remembered (2015), sono esposte nell’ambito della collettiva “Célébration Picasso, la collection prend des couleurs!”, a cura di Paul Smith presso il Musée national Picasso-Paris, fino al 27 agosto. Ricordiamo che in Obi Okigbo ritroviamo l’influenza dei maestri olandesi come le appropriazioni della mitologia Igbo, ossia del popolo della Nigeria sudorientale.

Per ritornare al tema della maschera, Ringgold propone Women’s Liberation Talking Mask (1973), in cui ipertrofizza la bocca, segno di presa di parola nel movimento di liberazione delle donne. Lei trae ispirazione dall’arte africana per riconnettersi con le sue origini e dire che è orgogliosa di essere un’artista nera, inoltre realizzando maschere unisce attivismo, espressione artistica e performance. Nell’ambito di questa esposizione, vale la pena spendere qualche parola sui magnifici Quilt, delle trapunte in cui combina pittura, cucito e scrittura. Ispirandosi a quelle cucite, in piena schiavitù, da donne nere con pezzi di tessuto, si inventa una nuova forma d’arte che vede al centro l’immagine principale della narrazione, in alto e in basso il testo e una cornice di tessuti floreali all’esterno.

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