-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- Servizi
- Sezioni
- container colonna1
Alla Biennale di São Paulo, l’umanità è una pratica: l’intervista ai curatori
Arte contemporanea
Nem todo viandante anda estradas – Da humanidade como prática: Not All Travellers Walk Roads – Of Humanity as Practice. Con questo titolo, tratto da una poesia di Conceição Evaristo, la 36ma Bienal de São Paulo si prepara ad aprire le porte, il 6 settembre 2025. Un paesaggio fluido e polifonico di opere, suoni e gesti popolerà gli spazi del Ciccillo Matarazzo Pavilion, fino all’11 gennaio 2026. Curata da Bonaventure Soh Bejeng Ndikung con Alya Sebti, Anna Roberta Goetz, Thiago de Paula Souza, Keyna Eleison e con la consulenza di Henriette Gallus, la Bienal 2025 riunirà 120 partecipanti al padiglione e altri cinque nel programma Tributaries di Casa do Povo.

Per la presidente della Fundação Bienal, Andrea Pinheiro, questa edizione segna una tappa importante: quattro mesi di durata, un programma educativo ampliato e l’obiettivo di accogliere un pubblico sempre più vasto. La Biennale più longeva del Sud globale, nata nel 1951 e oggi riconosciuta come la più grande mostra del suo emisfero, riafferma così la propria funzione di laboratorio culturale internazionale, custode di memorie e produttrice di futuri possibili.

Rotte migratorie come metodo curatoriale: voci, corpi, cosmologie
La Bienal de São Paulo 2025 ha scelto le traiettorie degli uccelli migratori come bussola per una rinegoziazione concettuale sull’umanità: dal falco dalla coda rossa che attraversa le Americhe, alla pettegola che vola tra Asia centrale e Nordafrica, fino alla sterna artica che percorre i poli. Questi viaggi che assecondano ritmi ancestrali, totalmente indifferenti a confini e passaporti, sono metafora di una curatela che rifiuta le categorie di Stato e nazione ormai cristallizzate, per valorizzare memorie, urgenze e linguaggi capaci di abitare deserti, fiumi e oceani.
Le geografie scelte evocano fiumi e bacini d’acqua, dal Wouri al Tamigi fino all’Hudson, come simboli di incontro e confluenza. L’acqua, elemento connettivo per eccellenza, diventa il filo che guida il percorso espositivo e ispira anche il progetto architettonico di Gisele de Paula e Tiago Guimarães, concepito come un paesaggio di estuari e margini sinuosi, in cui il vuoto stesso è forza e spazio da abitare.

La lista dei partecipanti alla Bienal de São Paulo 2025 è quanto mai eterogenea: da autori come Isa Genzken, Wolfgang Tillmans, Forensic Architecture, Nari Ward, Kader Attia, Oscar Murillo e Otobong Nkanga, a figure storicizzate ma da riscoprire, come Behjat Sadr ed Ernest Mancoba, fino a pratiche emergenti e collettive provenienti da più continenti. Tra gli artisti invitati, anche l’italiano Michele Ciacciofera. Pittura, installazioni, performance, video, pratiche comunitarie e cosmologie non occidentali si intrecciano, dando forma a un mosaico che resiste alla linearità e privilegia la polifonia.

In un momento storico segnato da tragedie umanitarie, confini chiusi e crisi ecologiche, la Biennale di San Paolo invita a pensare l’umanità come pratica comune, fragile ma ancora possibile. Una attitudine che è poetica e politica insieme e che i curatori hanno costruito come un coro di voci, gesti e silenzi. Ne parliamo con Bonaventure Soh Bejeng Ndikung.
L’umanità non scontata: intervista a Bonaventure Soh Bejeng Ndikung
Il titolo della Biennale – Not All Travellers Walk Roads – Of Humanity as Practice – evoca una forma di movimento non solo geografico, ma anche poetico e politico. In che modo l’idea di “umanità come pratica” ha guidato le vostre scelte curatoriali e come si riflette nel rapporto tra gli artisti invitati e i territori da cui provengono?
«Il titolo insiste sul fatto che l’umanità non può essere data per scontata: deve essere praticata, coniugata e curata. Abbiamo invitato gli artisti non come rappresentanti di nazioni o territori, ma come portatori di specifiche urgenze, memorie e modi di essere che aprono nuove comprensioni dell’umanità. Questa idea ci ha guidato verso opere radicate in molteplici sistemi cosmologici, in movimenti diasporici, in lotte ecologiche, in poetiche del silenzio e dell’improvvisazione. Ogni artista porta con sé una grammatica dell’umanità situata, complessa e profondamente legata ai luoghi e alle comunità da cui emerge».
I modelli di migrazione degli uccelli sono stati citati come quadro metodologico per evitare le tradizionali classificazioni geopolitiche. Quali sfide e rivelazioni sono emerse dall’adozione di questa prospettiva transfrontaliera e come si è tradotta nell’architettura della mostra e nella selezione degli artisti?
«La metafora degli uccelli migratori ci ha aiutato ad andare oltre le rigidità degli stati nazionali e dei circuiti del mondo dell’arte. La migrazione non è solo spostamento forzato, ma anche conoscenza, ritmo e sopravvivenza. La sfida non è stata quella di romanticizzare il movimento, ma di mantenerne le contraddizioni. Questa prospettiva ha plasmato la selezione degli artisti come un processo di osservazione di flussi, risonanze e urgenze attraverso le geografie, piuttosto che di selezione di caselle di rappresentazione. Nel progetto espositivo, si è tradotta in un’architettura di fiumi ed estuari: fluida, non lineare, che invita a deviazioni e attraversamenti. Il visitatore è incoraggiato a non seguire un percorso prestabilito, ma a lasciarsi trasportare, tornare indietro e incontrare le opere in una relazione polifonica».

Le “Invocazioni” e gli “Affluenti” suggeriscono un approccio liquido, decentralizzato e polifonico. Quale ruolo giocano l’ascolto e la polifonia nel plasmare la struttura narrativa della Biennale, in particolare in termini di esperienza del visitatore?
«L’ascolto è diventato sia una metafora che una metodologia. A Marrakech, abbiamo iniziato con l’ascolto profondo attraverso le pratiche Sufi e Gnawa; in Guadalupa, con l’instabilità del bigidi; a Zanzibar, con le improvvisazioni del Taarab; a Tokyo, con il perturbante della robotica e del Nō. Queste Invocazioni ci hanno insegnato che l’umanità non è una voce singola, ma un coro.
Polifonia qui non significa consenso, significa coesistenza. La struttura della Biennale resiste a una singola narrazione lineare, offrendo invece una costellazione di voci, suoni, silenzi e gesti. Per il visitatore, questo significa muoversi attraverso una mostra che lo ascolta tanto quanto parla. Un’esperienza di risonanza e molteplicità».

In un momento storico segnato da confini chiusi, disastri ecologici e crisi globali, la 36a Biennale propone un’idea di attraversamento, memoria condivisa e trasformazione. Che tipo di immaginario politico, etico o spirituale sperate emerga da questa edizione?
«Ci auguriamo che questa Biennale possa coltivare immaginari che resistono alla disperazione. Politicamente, insiste sull’attraversamento, sul rifiuto delle chiusure di confini, identità e discipline. Eticamente, invita alla responsabilità: prendersi cura gli uni degli altri, custodire i ricordi, riconoscere le ferite senza cancellarle. Spiritualmente, propone il movimento come pratica di vita: vacillare ma non cadere, ascoltare profondamente, improvvisare nell’incertezza. Se non altro, speriamo che i visitatori se ne vadano con una rinnovata consapevolezza che l’umanità non è finita ed è ancora possibile, se siamo aperti a praticarla, insieme».














