21 gennaio 2022

Anna Paparatti, l’anello mancante della Pop Art italiana (II parte)

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Seconda parte di un entusiasmante incontro con Anna Paparatti, artista italiana recentemente "riscoperta" da Maria Grazia Chiuri. Che oggi ci apre le porte della sua casa, e della sua storia. Con Sargentini, l'India e il Living Theatre

Anna Paparatti, Fiori di loto ed occhi del Buddha, 1994, 30x40 cm

Riprendiamo la nostra conversazione con l’artista italiana Anna Paparatti. La prima parte dell’intervista la trovate su exibart.com, a questo link.

La tua seconda mostra alla galleria Eddart nel Palazzo Taverna a Roma, “Tantra For Ever”, ha raccolto vari tuoi lavori che si rifanno completamente alla cultura indiana anche se l’allestimento che ne sottolinea la serialità è ancora di matrice un po’ pop come i tuoi lavori precedenti, i Giochi, degli anni ‘60. Si vede che hai lavorato concentrandoti su un simbolo alla volta. Ci sono variazioni di Buddha, variazioni di Fiori di loto, variazioni di Erotici e variazioni di Mandala.
La mia prima idea per questa mostra era di riempire di quadri la parete fino al soffitto, come la prima mostra dei Futuristi a Parigi. Volevo una cosa più selvaggia, mescolando anche i periodi. Poi vedremo se farlo per il finissage. Nell’allestimento in corso, i quadri sono divisi per serie e per colori. Sono cinque i colori del Buddha, naturalmente ognuno ha un significato: terra, acqua, fuoco, cielo e etere. L’etere è l’immensità. A ogni colore corrisponde un Buddha, sono i Cinque Buddha, i Buddha celestiali o Dhyani-Buddha, non me lo sono inventata io, fa parte del Buddhismo tibetano. In ogni quadro il Buddha fa un gesto diverso con la mano, e ci sono oggetti diversi. Ognuno ha un nome specifico, Flaviano mio nipote quand’era piccolo li cantava: Amitabha!, etc., li sapeva a memoria. Ma a quanto pare questi Buddha non si vendono bene ancora.

Ancora devono essere capiti, vanno studiati. Qui, dietro di te scopro un’altra serie ancora, allestita allo stesso modo a parete.
Sì, sono 16 quadri mai esposti, li chiamo Siddharta. Sono scene salienti della vita del Buddha. Ho studiato tanto prima di decidere quali fossero le più importanti. Ci sono elementi ricorrenti come il sole, l’acqua, la montagna. Ogni posizione del Buddha ha un nome. I miei Buddha precedono i Mandala che sono i miei ultimi lavori, e che invece si stanno vendendo bene. Fra i Giochi e i Mandala, ho dipinto vari cicli oltre ai Buddha, ci sono le Montagne, i Fiori di Loto, i Paesaggi Nepalesi, gli Stupa (che sono la mia serie con gli occhi del Buddha), etc.

Quindi i tuoi Mandala sono la chiusura del cerchio.
Sì, bella questa. Non credo che gli artisti facciano una cosa invece di un’altra per caso. Credo esisti un Dio della Pittura, perché anche guardando adesso i miei lavori, penso: ma come diavolo ho fatto? Come mi è venuto?

Anna Paparatti, Porno Tantra, Anni Novanta 70×60 cm

Sembra quasi che tu non voglia prenderti nessun merito. Questa divinità che ti ha ispirato è un po’ come una musa della mitologia greca?
Non c’è una musa della Pittura. È la mia divinità, ma il nome non mi è venuto ancora. Ci devo pensare. Ho studiato tutta la vita, sono un’artista, se proprio mi devo prendere il merito di qualcosa, è quello di essere un tramite tra questa divinità e la pittura.

Nella tua camera da letto c’è la riproduzione fatta da un pittore indiano a partire da una miniatura erotica indiana con le vostre facce di te e Fabio Sargentini, impossibile non pensare a Ontani. Era venuto in India con voi, durante la mostra itinerante l’Attico in viaggio. Si può dire che tu l’abbia influenzato?
Nel libro che sto finendo di scrivere, parlo anche di questo. Nel mio primo libro [Arte-Vita, 2015] mi ero concentrata sugli artisti, in questo invece ho preso delle parti dei miei appunti di viaggio, commento le polaroid che mi ha fatto Fabio in India, parlo di Buddhismo, rifletto su alcuni detti del Dalai Lama. È una specie di patchwork dei miei appunti di viaggio in India, in Nepal e in Kashmir, con salti temporali.

Anna Paparatti, Buddha Newyorkese, 1994, 100×100 cm

Ricordi l’ultimo viaggio lì?
Sì, l’ultimo proprio era in Nepal negli anni ‘90, sono stata un mese fissa a Katmandu a dipingere quadri che non sono mai stati esposti. Anche in Kashmir sono tornata da sola (prima che scoppiasse il conflitto anglo-pakistano) perché volevo disegnare i fiori di loto dal vero. Mi facevo accompagnare con queste shikara [piccole imbarcazioni in legno] dove fioriscono i fiori di loto, affiorano sull’acqua. È seduta in quelle piccole barche che ho fatto questa serie di disegni che puoi vedere lì.

Sembrano incisioni, il tratto è molto netto, lineare.
Sì è il mio stile, li ho disegnati a matita e poi ci sono ripassata con la china. Poi li ho tolti dal mio album e li ho incorniciati. Roberto Bilotti ha esposto alcuni di questi Fiori di Loto che poi sono rimasti al museo a Cosenza. Li ho donati perché all’epoca non mi si filava nessuno ed ero quindi più reattiva in questo senso.

Quindi c’è un po’ del tuo lavoro in Calabria dove sei nata.
Sì, sono 16 quadri in tutto, grandi e piccoli, tutt’ora esposti nel Museo Civico di Rende. Ma io sono nata a Reggio Calabria.

Il tuo corridoio invece è tappezzato di ricordi, ci sono i manifesti delle mostre dell’Attico [galleria di Fabio Sargentini] disegnati da te e tante fotografie di voi, molte scattate dal grande Claudio Abate.
Sì, questa era la casa di famiglia, qui ho vissuto con Fabio dopo la casa a via del Babbuino e qui è cresciuta nostra figlia Fabiana dai 7 ai suoi 21 anni. In questa casa abbiamo fatto di tutto, riunioni, concerti, cene a cui partecipavano gli amici, artisti soprattutto, Indiani, Americani e ovviamente Italiani.

Anna Paparatti, Fiori di Loto Bianchi n.1, Anni Novanta, 50×60 cm

Quando se n’è andato da questa casa Fabio Sargentini?
Ma non lo so esattamente, andava e tornava, è stato sempre un po’ così, aveva altre fidanzate, poi si lasciavano, tornava… Poi siamo stati un po’ di anni tranquilli, quando viaggiavamo in India, c’erano i festival di musica, di performance… Poi Fabiana a 21 anni è andata via, e lui le ha dato un piccolo studio a via del Paradiso. Ma fra noi c’era e c’è sempre un rapporto di affetto e di stima, non potrebbe essere altrimenti.

Cosa pensava del tuo lavoro Sargentini? Parlavate della tua pittura o eri riservata anche con lui?
No, ma facevamo tante cose insieme, i compiti erano divisi, ognuno aveva il proprio ruolo. Io ero contenta di fare i manifesti, le locandine per l’Attico. Ho cominciato a firmarmi solo quando abbiamo fatto teatro, facevo i costumi, di tutto. Poi ho ricominciato a dipingere negli anni ’80, quadri che ho esposto da Pio Monti negli anni ’90, sono stati venduti quasi tutti.

Anna Paparatti, Tantra su sfondo nero, Anni Novanta, 50×40 cm

Vedo che hai tenuto solo uno dei quadri della serie dei Giochi.
Sì nel salone grande, è il Grande Gioco, non ho voluto separarmene. È anche il più grande, gli altri sono tutti di formato più piccolo. Sono stati venduti tutti alla mostra di maggio scorso. [Fabiana Sargentini: Altri quadri della serie dei Giochi andati perduti erano stati fotografati da Alberto Griffi di cui abbiamo ritrovato delle diapositive in ottimo stato, sono stati ristampati in litografie da Elena e ne faranno altri.] Ho anche qui il Micro Quadro e un altro Gioco piccolo a cui mancano i pezzettini di legno che inserivo sulla tela come fossero delle tavole da gioco.

Come nasce questa serie (ormai iconica) dei Giochi che sono variazioni pop sul tema universale della tavola da gioco? Sulle pareti tutte dipinte di nero della tua camera da letto, che ricordano le quinte di un teatro (in un modo o nell’altro sempre presente nella tua vita dagli studi in Accademia con Scialoja), c’è appeso il quadro con la tua filastrocca sul gioco che scandisce giochi possibili e immaginari. Hai poi realizzato un quadro per ogni gioco elencato lì?
No, ma sia la filastrocca che i quadri li ho fatti con gli stampini. Amavo i Futuristi, Balla tantissimo, i loro manifesti con le lettere. I Giochi (che in tutto forse saranno un po’ più di una decina) sono il primo lavoro che ho sentito come mio. Ci sono arrivata istintivamente dopo una lunga fase di studio e sperimentazione, anche insieme a Pino Pascali che allora faceva le sue armi giocattolo. Il nostro era un gioco serio. Vivevo ancora a via di Sant’Aurea, una stradina tra via Giulia e Piazza dei Ricci. Abitavo in quella casetta con uno dei miei fratelli che studiava il restauro, ed è lì che ho vissuto con il discendente di Garibaldi con cui ero fidanzata prima di conoscere Fabio. Ero stata alla Biennale di Venezia, dove avevo visto le opere di Oldenburg, Stella, Indiana. Ecco, posso dirti che i Giochi li ho dipinti a cavallo della Biennale del 1962, un po’ prima e un po’ dopo.

Non li avevi mai esposti prima di maggio 2021?
No, ma ero molto amica del costumista Luca Sabatelli diventato poi famoso perché ha fatto i costumi di Raffaella Carrà. Mi chiese in prestito cinque o sei Giochi per una scena del film [del 1967] Ti ho sposata per allegria con Monica Vitti, la scena del club, e mi dettero un bel po’ di soldi.

Ricordi commenti o pareri di qualcuno in particolare (critici, artisti o galleristi) a cui hai fatto vedere anche in privato questi quadri?
Piacevano ma non c’erano altri riscontri. Poi me li sono portati a via del Babbuino, quando mi sono trasferita, dove solo il Grande Gioco era appeso, gli altri erano stipati in soffitta e molti si sono anche rovinati con la pioggia. Poi qui in questa casa [a lungotevere dei Mellini] sono stati fino a qualche mese fa appesi in alto nel corridoio ed è ancora come se ci fossero.

E, 60 anni dopo che hai dipinto i Giochi, arriva Maria Grazia Chiuri, ti compra il progetto per fare la sfilata Dior PE 2022 e ti catapulta sotti i riflettori. Un gesto incredibile il suo, che precede quello che dovrebbe essere il compito di storici dell’arte e musei. Di fatto non è stata solo una sfilata ma una vera e propria mostra.
Sì, non è stata una sfilata normale ma una performance. Maria Grazia è venuta qui portata da Elena [galleria Eddart], pensavo che fosse per comprare qualche quadro. Invece, qualche giorno dopo, è arrivata la proposta di Dior. Allora, con grande naturalezza, forte anche dei miei studi in scenografia, ho disegnato il piano scenico in pianta aperta, Fabiana mi ha stampato le immagini a colori dei miei quadri che ho ritagliato e incollato su uno sfondo nero (ho voluto che lo spazio scenico fosse tutto nero anche qui), e Maria Grazia – un genio – ha fatto realizzare dai scenografi di Dior, che sono una vera eccellenza, dei podi di varia altezza per ogni casella del mio quadro Pop Oca.

Un gioco dell’Oca in 3D in cui le modelle si muovevano come pedine, come si vede nel video della sfilata.
Sì, le modelle durante le prove entrarono in confusione, non sapevano più come muoversi. Non era mai stato fatto prima.

Anna Paparatti, Porno Tantra, Anni Novanta 70×60 cm

Dov’è il tuo quadro Pop Oca adesso?
Me l’ha comprato Maria Grazia, solo lei lo poteva avere. Non avevo voluto nemmeno esporlo. Poi per ringraziarmi mi ha fatto mandare da Parigi direttamente da Dior una coperta fatta ricamare in India solo per me. A Fabiana invece, che è stata alla sfilata al posto mio, alle Tuileries a Parigi, hanno dato un vestito e una giacca che sembra fatta da Michelangelo.

Che dici, vale la pena aspettare 80 anni per avere un lancio così?
Sicuramente! Ma io ci sono sempre stata, nascosta ma c’ero. Ci sono ancora, poi quando deciderò di andarmene me ne andrò.

A vederli così i tuoi Mandala, sia quelli ad olio esposti in galleria che questi piccoli fatti a tempera, sono la naturale continuazione dei tuoi Giochi. Alcuni sembrano quasi frattali di Mandelbrot, ipnotizzanti.
Forse, chissà, ma il mio lavoro parte da tutt’altro, è mistico. Una mia amica psicologa junghiana Patrizia Baldieri dice che i miei Mandala hanno una vibrazione, un effetto positivo, non solo per me che li ho fatti ma anche per gli altri. Si dice mandàla con l’accento sulla seconda sillaba, significa cerchio magico. Esistono delle tecniche, sono partita da uno schema iniziale, poi ho cercato i miei mandala personali, con il tempo ho sviluppato diversi schemi. Il mandala è usato per fare meditazione, per trovare il centro in sé stessi. Dentro c’è tutto un mondo. Questi piccoli Mandala su carta che stai sfogliando li ho dipinti per tre anni, fino al mio arresto cardiaco nel 2018. Io ero morta, e poi sono resuscitata. Altro che Gesù Cristo!

Fortuna che sei resuscitata, troppe cose c’erano ancora da dire e da avvalorare. Guardandoti indietro, come definiresti nell’insieme la tua ricerca artistica?
Un mio amico dell’Accademia, Marco, diceva di me che ero “l’angelo della luce negativa”, ma non in senso negativo, nel senso che era una luce sfuggente. La luce dei miei quadri si riflette, rimbalza. Il colore è importantissimo per me, per la sfilata di Dior ho fatto cambiare i colori sei volte, alla fine sono venuti direttamente a casa con il pantone e ho scelto i colori giusti.

È la tua palette o tavolozza a definire l’insieme del tuo lavoro?
Sì, passando dai Giochi ai Buddha ai Mandala, si capisce che li ho fatti io. I miei colori non sono mai sfumati, non ho mai usato né acquerelli né pastelli. Ho usato soprattutto la tempera, poi molto più tardi sono passata all’olio per fare i lavori più grandi. Mi sembra che i colori mi escano più veri, forse perché la tempera è la tecnica che uso dai miei inizi. C’è però una cosa a cui ho pensato riguardo ai Giochi: sono stati tutti dipinti su tele antiche, che oggi sembra una chic-eria ma erano degli avanzi di rotoli del ‘700-‘800 che mi aveva regalato un rigattiere sotto casa, all’epoca non avevo soldi per comprarmi le tele. Oggi ho capito che queste tele erano prestigiose ed è probabilmente per questo che i colori sembrano più brillanti, più profondi. E da allora le mie tele sono in buono stato di conservazione, e questo ha aiutato.

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