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Dove vai in vacanza? – Se sei in cerca di angeli o in fuga dai demoni, vai in montagna
Arte contemporanea
Torrenti, pini selvatici, boschi neri, montagne, cammini dirupati ardui da salire e da discendere: qualcuno li aspetta, li desidera, li immagina e li sceglie per una vacanza all’insegna di cieli azzurri intensi, valli profonde, profili frastagliati e rocce vivide, colorate o innevate. La forza magnetica della montagna attrae e respinge: lo sanno bene Francesco Jodice, che al massiccio del Monte Bianco ha dedicato il ciclo di lavori Mont Blanc. Just Things, come anche Olivo Barbieri, che della catena montuosa ha immortalato una serie di vedute aeree.
Ma non sono i soli, ci sono infatti tanti modi per raccontare e far conoscere le montagne, tanti modi per leggerle, altrettanti per guardarle. Sono tanti gli artisti che raccontano le montagne, ognuno a modo proprio, attraverso un cammino sul filo di storie vissute, disseminato di emozioni e scoperte, a partire da Hamish Fulton – fondatore della walking art, «Walking is magic, walking transforms», afferma – ha individuato nell’atto del camminare una forma d’arte che gli permette di avvicinarsi alla natura e incontrare sé stesso. Negli ultimi vent’anni le sue camminate lo hanno portato a compiere esperienze in alta montagna, come accade spesso all’amico ed erede Michael Höpfner, che ha camminato lungo sentieri di montagna, steppe e aree desertiche, dalle Alpi al Sahara libico, dal Kirghizistan alla Cina, dal Nepal al Tibet, fino alle vette dell’Himalaya e molti altri territori, aperto all’ascolto di luoghi, culture e popolazioni. Anche Ellie Berry e Ruben Brulat, nel vasto mondo della fotografia contemporanea, nelle loro opere hanno saputo documentare la connessione umana con gli ambienti montani, spesso anche estremi, esplorando il tema del cammino come atto di scoperta o di ribellione.



Axel Hütte, della Scuola di Düsseldorf, ha realizzato un bel progetto sulle Alpi bresciane offrendo una visione suggestiva, mentre a Naoki Ishikawa, fotografo e alpinista giapponese, l’Accademia Carrara di Bergamo aveva affidato qualche anno fa una rilettura delle Alpi Orobie. Nel corso di tre residenze, in tre stagioni diverse, Ishikawa aveva documentato il paesaggio e la montagna bergamaschi in modo esaustivo. Certo, anche le opere di Richard Long – impossibile non ricordare proprio lui, tra i pionieri della Land Art – consistono in lunghe camminate in ambienti naturali, come le montagne appunto, documentate attraverso fotografie, mappe e sculture, come del resto Andy Goldsworthy, maestro nella creazione di opere effimere nella natura, anche in paesaggi montani, attraverso l’uso di foglie e ghiaccio, tutte documentate attraverso la fotografia.



Non sono da meno gli artisti che alla macchina fotografica preferiscono la pittura: la montagna si sa, è un soggetto classico. Da Caspar David Friedrich, con il suo Il viandante sul mare di nebbia, a Giovanni Segantini, come dimenticare per esempio il suo Mezzogiorno sulle Alpi in perfetto stile divisionista, fino a Paul Cézanne, che dipinse un’intera serie di opere dedicate alla montagna Sainte Victoire, o Alexej von Jawlensky, artista espressionista russo che ha saputo interpretare il soggetto con un audace uso del colore e della forma (Montagna blu), senza ovviamente dimenticare – secoli prima – Leonardo da Vinci e la sua Vergine delle Rocce, o Gregorio Botta, più di recente, che ha preso parte a diverse mostre sul tema della montagna, con opere che offrono una visione personale del paesaggio.



Anche Laura Pugno, artista torinese, ha spesso esplorato il paesaggio montano. Le opere sono un invito a entrare nel paesaggio, approfondendo l’analisi dei confini sempre più labili tra umano e non umano, stimolando la contemplazione del territorio come estensione del conoscibile o come suo confine. E se Pugno lavora con diversi media e materiali, tra cui disegno, fotografia, scultura e video, Manuele Cerutti ha scelto la pittura – e la propria figura, che senza dubbio è quella di cui ha maggior conoscenza – per restituire uno scorcio montano, mentre Bepi Ghiotti predilige il video e Claudia Losi l’installazione (Voce a Vento, per fare un esempio, sul Monte Bulgheria).
Non possiamo che chiudere questa breve e non esaustiva panoramica montana con la prima opera di arte relazionale a livello internazionale. Stiamo parlando di Legarsi alla montagna, ideata da Maria Lai nel 1981, a cui partecipò l’intera comunità di Ulassai. Lai, che aveva trovato ispirazione in un fatto realmente accaduto nel 1861, quando crollò un costone della montagna travolgendo un’abitazione, lasciò « a ciascuno la scelta di come legarsi al proprio vicino. E così dove non c’era amicizia il nastro passava teso e dritto nel rispetto delle parti, dove l’amicizia c’era invece si faceva un nodo simbolico. Dove c’era un legame d’amore veniva fatto un fiocco e al nastro legati anche dei pani tipici detti su pani pinta». In quest’opera, documentata dagli scatti di Piero Berengo Gardin e dall’artista Tonino Casula che realizzò un documentario, c’è la profonda consapevolezza che l’arte è un canale per stringere legami e per riflettere sull’uomo e sul mondo. Ma c’è anche qualcosa che oggi, a distanza di tanti anni, risuona attuale e urgente, ovvero il profondo legame tra l’uomo e la montagna. La montagna non è una moda, la montagna può offrire protezione e rifugio, sicurezza e stabilità, sfide e avventure. La montagna può essere un invito a superare i propri limiti, a riconnettersi con le proprie origini, a elevarsi spiritualmente, fino a connettersi con il divino. A una condizione: il rispetto, della sua natura, dei legami e dell’appartenenza.

















