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Dragos Badita, Light breeze touching the earth – Galleria Richter Fine Art
Arte contemporanea
Dal lunedì al sabato, fino al 29 gennaio, la Galleria Richter apre le sue porte per far conoscere il giovane artista romeno al pubblico. L’esposizione trasporta immediatamente nell’immaginario di Bădiță. Nelle sue opere è catturata dalla realtà tutta una serie di stimoli basilari e capillari, che caricano l’immagine di significati simbolici, ambiguità ottiche, costruzioni e corruzioni, disorientamenti visivi. In occasione della sua prima personale capitolina, abbiamo intervistato l’artista per farci raccontare di più della sua ricerca.
L’intervista a Dragoș Bădiță
Mi piacerebbe iniziare dalla tua formazione.
«Mi è sempre piaciuto disegnare, fin da quando ero un bambino. Ho studiato Arti Visive presso l’Università di Arte e Design in Cluj-Napoca, in Romania. Ho imparato moltissimo da miei colleghi, dalla Storia dell’arte, dal cinema, dalla letteratura e dalla filosofia. Ma gran parte dell’apprendimento non è facilmente riconducibile a una fonte specifica».
Sperimenti molteplici media e i temi della tua ricerca sono vari. Qual è il fil rouge della tua poetica?
«Posso dire che la maggior parte delle mie opere sono illustrazioni e disegni, ma mi piace anche sperimentare e giocare con le istallazioni e i video. Nelle mostre, spesso li uso per creare un’atmosfera avvolgente, che mira a far sentire l’osservatore maggiormente presente nello spazio e a creare una connessione più stretta con l’opera stessa. Se dovessi indicare una caratteristica in comune, direi che quel che accomuna tutte le mie opere sono sia una sorta di atteggiamento contemplativo sia una spessa attenzione alla sensibilità dello stato d’animo».

A proposito di questo, quali sono gli strati emotivi che maggiormente ti interessa indagare nelle tue opere?
«Penso di evocare e di ricreare attraverso le mie opere lo stato che io ritengo il più appagante: un’ introspezione aperta e consapevole. Intendo quel momento in cui la smania di pensare a sé stessi e il pensiero concettuale si riescono a domare. Uno stato d’animo che può forse descriversi come una semplicità basica e primordiale, o come la purezza dello stare al mondo. È come quello che si raggiunge attraverso la metidazione. Credo che il successo delle mie opere sia dovuto a questo, perché rimandano a questo stato emotivo».

Tendi a catturare dalla realtà una serie di stimoli che danno vari significati. Come si legge tutto questo nelle tue opere?
«Nell’ambiguità. È interessante pensare cosa significa oggi la pittura realistica, quando sappiamo che il mondo reale ha poco in comune con la rappresentazione visiva che appare nella nostra mente. È definitivamente in riflesso delle nostre proiezioni, dei nostri interessi, e non una finestra sul mondo. Eppure, c’è una verità a cui si può arrivare tramite l’arte. Per me consiste nel tenere a mente alcune caratteristiche fondamentali del mondo. Una è l’ambiguità: nella natura c’è qualcosa di così vasto e senza fine, che non può essere fissato in un unico significato. Per rispondere alla domanda, direi che non posso ritenermi soddisfatto se un’opera è troppo ovvia o riconducibile a poche interpretazioni».
In questo periodo storico così extra-ordinario, stai lavorando a qualcosa di nuovo?
«Sto lavorando a un nuovo dipinto, di grandi dimensioni. Il soggetto principale è una casa collocata in un paesaggio deserto. La neve cade dentro questa casa. Ma è troppo presto per capire se una simile rappresentazione della realtà è a tutti gli effetti fuori dall’ordinario e dal senso comune».
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