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Elmgreen & Dragset, il sonno della realtà genera l’ambiguità: la nuova opera a Parigi
Arte contemporanea
Pochi autori sanno giocare con l’ambiguità come Elmgreen & Dragset. Le loro installazioni si definiscono iperrealistiche ma, più che di un realismo soverchiante, si potrebbe parlare di un realismo laterale. Quello – un po’ lynchiano – in cui ogni dettaglio sembra alludere a infinite esistenze parallele, lasciando intuire soltanto una parte di una verità comunque opinabile. È nel margine, nel vuoto tra ciò che vediamo e ciò che immaginiamo, che il duo scandivano costruisce la sua poetica. Lì si apre uno spiraglio, una fenditura da cui può filtrare ogni senso e dove la percezione si destabilizza.
Dopo la Room Service, la misteriosa porta con il numero 66 (un Overlook Hotel à la Shining o un Great Northern di Twin Peaks) recentemente esposta a Panorama Italics a Pozzuoli e presentata a Milano già nel 2023, per la mostra che vedeva dialogare Elmgreen & Dragset e l’artista svizzero John Armleder, Massimo De Carlo affida nuovamente al duo scandinavo un’operazione speciale per un’occasione speciale: la settimana di Art Basel Paris.

A Parigi, dietro la vetrina su rue de Turenne della sede di Pièce Unique, una sola opera attende lo sguardo dei passanti: una giovane donna seduta alla scrivania bianca di una postazione di lavoro minimalista, la testa reclinata. Il portatile grigio aperto, il catalogo di Fontana chiuso su una piccola pila di altri cataloghi – tra cui uno di Elmgreen & Dragset -, il foglio con il comunicato stampa che descrive se stessa – ciò che la stessa opera avrebbe potuto scrivere di sè. Le scomode scarpe nere con il tacco, il taglio netto del suo abbigliamento, la giacca poggiata sullo schienale della poltrona da ufficio. Tutto sembra studiato per esistere in una sospensione ambigua. Si cercano i suoi occhi, sono chiusi. È viva? Dorme? Si è arresa o si sta proteggendo dal mondo?
L’opera, intitolata October 2025, è una scultura iperrealistica collocata in un ambiente senza troppi riferimenti esterni: è la presenza stessa della figura a costituire la frattura, la dissonanza. Di giorno e di notte, la figura continua a essere dietro il vetro della galleria, visibile a chiunque. Potrebbe trattarsi di una gallerista esausta, un’impiegata che finge di dormire per sottrarsi al ritmo produttivo. Come suggerisce la galleria, una Bartleby contemporanea – “I would prefer not to”, “Preferirei di no”, rispondeva l’opaco personaggio di Herman Melville alle richieste del datore di lavoro – che sceglie di chiudere gli occhi come atto di forza o di negazione. Oppure ancora, rimanendo nella compagnia allucinatoria, umbratile, di certe iconiche figure letterarie, il signor Storm delle pagine di L’uomo che non voleva piangere, racconto attualissimo di un altro – sfortunato – frequentatore dal realismo onirico, Stig Dagerman.

La linea tra finzione e realtà si fa sempre più porosa e chi osserva è chiamato a sospendere la storia. Da spettatore, lascia il suo possibile ruolo di narratore, costretto a scegliere un’interpretazione senza avere gli elementi necessari, nonostante la ricchezza e la precisione di particolari. A questo punto, insistendo per rendere fluido l’enigma, una strada da percorrere potrebbe essere quella che rimane sulla superficie immediata delle cose. E dunque, le parole: October 2025. Un riferimento alle stagioni, all’agenda di lavoro che coincide con il diario privato? Il tempo che trascorre inesorabile scemando dagli impegni programmati oppure, al contrario, uno still life, una natura morta, quindi un estratto di realtà, una istantanea? Difficilmente troveremo una risposta e non è affatto detto che le domande siano quelle giuste, se la volontà stessa di porsi domande è lecita. In ogni caso, possiamo continuare a ragionarci su, anche perché sul sito di Pièce Unique c’è una ripresa live h24 dello spazio dall’alto e, chissà, dal nostro panopticon, potrebbere anche accadere qualcosa.
Comunque, gli indizi sono disseminati in vari luoghi, anche al di là della vetrina, e riconducono alla mostra The Alice in Wonderland Syndrome, visitabile proprio in questi giorni da Pace Gallery a Los Angeles, nella quale compare un’opera molto simile: un’assistente di galleria addormentata al desk. L’esposizione prende il titolo dalla cosiddetta sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie, o Dismetropsia, una rara condizione neurologica spesso legata a emicrania, infezioni o affaticamento, in cui la percezione delle dimensioni, della distanza o della forma di una persona è distorta.
Non è la prima volta che il duo trasforma il fronte di una galleria in un dispositivo di sospensione narrativa. Nel 2005, con Prada Marfa, avevano installato una boutique Prada nel deserto del Texas, destinata a restare per sempre chiusa, come un’illusione di consumo e decadenza. Anche qui, la vetrina diventa soglia di una scena bloccata. L’opera segna anche un ritorno Elmgreen & Dragset a Parigi, quasi un anno dopo L’Addition, la mostra al Musée d’Orsay in cui il duo aveva disseminato il grande atrio del museo con sculture maschili, alcune sospese a testa in giù, mettendo in discussione i codici di rappresentazione e il concetto stesso di monumento.
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Un post condiviso da MASSIMODECARLO Pièce Unique (@massimodecarlopieceunique)














