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«Perché io possa scrivere poesie che non siano politiche // devo ascoltare gli uccelli, // e per poter sentire gli uccelli // gli aerei da guerra devono tacere».
— Marwan Makhoul
L’arte che nasce sotto l’assedio non ha il privilegio della neutralità. Ogni immagine diventa immediatamente testimonianza, ogni parola si fa resistenza e di fronte alla distruzione sistematica del popolo palestinese, nessuna opera può pretendere di essere neutrale.
La Biennale di Gaza —avviata nel 2024 dall’artista Tasneem Shatat e dal collettivo Forbidden Museum— nasce proprio da questa condizione. È un atto di resistenza culturale o, come scrivono gli organizzatori della mostra «un appello al mondo, agli artisti e alle istituzioni culturali, perché si schierino in solidarietà con gli artisti palestinesi, li sostengano e lavorino insieme per garantire che le loro voci e le loro storie restino presenti, e che le loro opere rimangano una testimonianza di lotta e resilienza».
Com’è facile immaginare, però, non si tratta di una biennale nel senso tradizionale del termine: non ha un padiglione unico né un calendario definito, ma si manifesta ovunque ci sia uno spazio disposto a ospitare la voce di Gaza, dall’Europa agli Stati Uniti, trasformando mostre geograficamente lontane in frammenti di un’unica esposizione collettiva. Atene, Berlino, Londra, Valencia, New York, Istanbul, Padova e molte altre: ognuna di queste città ha offerto nell’’ultimo anno uno spazio per l’arte palestinese. Non avendo accesso alla normalità, Gaza produce un nuovo paradigma: la biennale senza centro, dispersa nella diaspora, esposta ovunque ma sempre altrove.

Nel settembre 2025, ad Atene, la mostra In the Line of Fire. Miracles amidst Ruins ha riunito una trentina di artisti della Striscia. A Brooklyn, il New York Pavilion che propone From Gaza to the World è stato pra prorogato fino a dicembre. A Londra, lo spazio Ugly Duck ha ospitato una collettiva per sensibilizzare sul genocidio in atto. Ma ciò che appare in questi “padiglioni”, tuttavia, sono spesso riproduzioni, versioni ricostruite di opere realizzate in Palestina, video-documentazioni, oggetti rifatti in situ. Gran parte dei lavori infatti non può viaggiare: restano intrappolati a Gaza, distrutti o inaccessibili. È dunque l’assenza stessa degli originali a dichiarare la condizione di displacement che unisce, come un filo rosso (e nero e bianco e verde), tutte le esposizioni che compongono questa Biennale.
E se pensare all’arte in questi momenti può sembrare superficiale, sono gli artisti stessi a smentire e a descrivere la loro pratica come un modo per sostenersi. Racconta Murad Al-Assar, uno degli artisti esposti in mostra: «Durante la guerra, l’arte è diventata per me un mezzo di sopravvivenza. Attraverso la pittura ho potuto liberare il dolore e l’angoscia, trasformando la paura in immagini che raccontano le nostre storie. Questa esperienza mi ha insegnato che dipingere non è solo uno spazio estetico, ma una testimonianza delle nostre vite e un mezzo per trasmettere la nostra voce al mondo».
Il cuore di queste pratiche, perciò, non sta solo nelle immagini. Sta nel ricordare che, prima di ogni opera, viene la vita. Che la vera posta in gioco non è l’arte come tale, ma la dignità delle persone: la possibilità di sopravvivere, di esistere e di avere una voce. È questa consapevolezza a fare della Biennale di Gaza non soltanto un progetto artistico, ma un atto di resistenza umana.















