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Focus curatori in 22 domande: intervista a Laura Lamonea
Arte contemporanea
Prosegue il nostro FOCUS curatori, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La nuova puntata della nostra rubrica ha per protagonista Laura Lamonea.

Focus curatori: la parola a Laura Lamonea
Come ti definiresti?
«Lavoro come curatrice e produttrice di progetti culturali, ma mi piace definirmi una mediatrice: la relazione con il pubblico è per me molto importante e di conseguenza la relazione che instaura con l’opera, l’artista e la mostra».
Dove sei nata e dove vivi?
«Sono nata a Salerno, ma da anni vivo e lavoro a Milano».
Dove vorresti essere nata e dove vorresti vivere?
«Non cambierei le radici, ma se potessi modificare qualcosa, forse avrei voluto vivere maggiori esperienze formative anche in altre città del mondo».
Quando hai capito che ti interessava l’arte?
«Già a scuola ero affascinata dal processo artistico e da tutto ciò che ruota intorno alla produzione. Ho iniziato molto presto con la produzione di cortometraggi, e da lì è nato un interesse sempre più profondo per le pratiche artistiche contemporanee».
Quando hai deciso che avresti fatto la curatrice?
«È stato un processo nato in modo naturale, più di 15 anni fa, quando ho iniziato a costruire il progetto Video Sound Art a Milano insieme ad altre persone, mettendo in dialogo le nostre esperienze legate alla produzione culturale. Da lì abbiamo iniziato a sviluppare percorsi condivisi con gli artisti e con le istituzioni museali».

Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatrice?
«I testi di Barilli dove torno spesso, On Stage: The Theatrical Dimension of Video Image di Mathilde Roman per l’attenzione alla curatela come spazio critico e relazionale. Fra le immagini di Raymond Bellour, invece, mi ha accompagnato per la sua capacità di riflettere sul visivo tra cinema, arte e immagine in movimento».
Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?
«Frequento con regolarità festival di cinema, teatro e danza, così come progetti e biennali di architettura, perché credo che il confronto tra linguaggi sia una chiave preziosa per interpretare la complessità contemporanea».
Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?
«Tante tante mostre, ma se devo citare un ciclo penso al ciclo a cura di Lissoni all’Hangar Bicocca di Milano, che ha visto susseguirsi personali di artisti come Juan Munoz, Kyarthasson, Joan Jonas. Ho imparato tanto lavorando con biennali come Manifesta, la biennale itinerante olandese».

Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?
«The Suite di Peter Brook, per la capacità di raccontare storie attraverso il linguaggio scenico».
Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?
«Tantissimi. Ne cito solo alcuni. Letizia Cariello, David Claerbout, Camille Henrot; Ali Kazma; Enrique Ramirez; Mika Rottenberg; Luca Trevisani… per il rapporto con la materia e per la capacità di ridefinire il perimetro dello sguardo, aprendo nuove possibilità di collocare le cose nel mondo».
Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?
«Lea Vergine, Andrea Lissoni, Mathilde Roman e certamente Celant. Penso alla mostra Identité italienne. L’art en Italie depuis 1959 al Centre Pompidou di Parigi».

Con quale progetto hai iniziato a definirti curatrice?
«Con Video Sound Art, il festival che ho fondato nel 2010 a Milano. Avevo terminato gli studi universitari, lavoravo per la radio ed ero circondata da persone con cui condivido molto. È a partire da questa esperienza che ho avvertito la necessità di costruire contesti in cui l’arte potesse dialogare con spazi abitati dalla comunità, testando linguaggi, formati e forme di coinvolgimento del pubblico. Ho iniziato a costruire la mia visione di curatela non solo come lavoro di selezione e ricerca, ma anche di costruzione di senso condiviso».
Qual è la tua definizione di curatore?
«È un mediatore che crea connessioni, favorisce il dialogo e costruisce le condizioni affinché l’opera possa esprimersi pienamente e raggiungere il suo pubblico».
Qual è la tua giornata tipo?
«Non ho una giornata tipo. Ogni giorno cerco di fare delle cose che mi fanno stare bene come nuotare, cucinare con amici, leggere o guardare un pezzo di un film se il tempo mi rincorre».

Hai dei riti particolari quando lavori?
«Ho bisogno di molta concentrazione per cui spesso mi isolo in modo rituale».
C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?
«Il mio lavoro è costellato da imprevisti come quello di tutti forse, per cui la flessibilità e la tenacia sono qualità che spero di non perdere».
Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?
«La XIII edizione di Video Sound Art Festival, BABEL è stato per me un punto di snodo, sia per l’impianto curatoriale che per le collaborazioni internazionali che ha attivato. In particolare, è nato da una ricerca condotta presso il CNAP – Centre National des Arts Plastiques di Parigi. Ho selezionato in tre mesi totalmente dedicati (che privilegio!) circa 150 film, a partire da oltre 800 realizzati da registi europei e di Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, concentrando le mie ricerche sul linguaggio visivo e su come questo agisca nel mondo contemporaneo come dispositivo culturale capace di costruire e ridefinire la realtà.
Un altro progetto che ho sentito molto vicino al mio percorso è sicuramente GESTUS, una mostra commissionata nel 2021 da Palazzo Grassi – Punta della Dogana per il Teatrino. L’identità della mostra si poneva in relazione con lo spirito stesso del luogo: il teatro, l’arte delle relazioni che si manifesta attraverso il movimento ritmico del corpo umano nello spazio. La ricerca curatoriale si è incentrata sull’essere corpo partendo dalle riflessioni inaugurate dai grandi maestri teatrali del ‘900 – Jacques Copeau, Antonin Artaud, Bertolt Brecht – che avevo studiato nei miei anni di formazione teatrale. La mostra stessa si rifaceva alla struttura teatrale: due atti con due coppie di interpreti – due artisti principali – e un coro di performer che, come nell’antica tragedia greca, dialoga con i protagonisti attraverso il movimento».

A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?
«La critica d’arte sta molto cambiando perché vive e si nutre di una molteplicità di visioni transdisciplinari. Soffre della carenza dei fondi. Pochi sono coloro che scrivono d’arte e possano concentrarsi su quello in modo prioritario, e questo fa in modo che la voce più forte sia spesso quella che viene da un contesto di forza economica. Ci sono però tante persone che resistono, hanno strumenti e ci aiutano a decodificare».
Quali sono i tuoi riferimenti critici?
«Uno dei riferimenti fondamentali del mio percorso è senza dubbio Philippe Dubois, teorico dell’immagine e dei media, tra i più importanti pensatori dell’audiovisivo contemporaneo. Nel suo saggio Video e scrittura elettronica. La questione estetica, Dubois si interroga sul significato e l’etimologia della parola “video” e ci ricorda che l’atto del vedere è alla base di tutte le arti visive: dalla pittura alla fotografia, dalla scultura al cinema. Il video, quindi, non come tecnica o supporto, ma come processo percettivo e cognitivo, come atto fondativo dello sguardo. Questa riflessione ha avuto un’influenza determinante sul mio lavoro curatoriale, spingendomi a concepire il video non solo come mezzo espressivo, ma come spazio critico».

La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?
«Mi piacerebbe poter portare avanti un progetto di curatela collettiva. Forse avrei voluto partecipare all’ultima edizione di Documenta, così complessa e criticata, tuttavia certamente piena di sperimentazione».
Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?
«A volte mi trovo impreparata di fronte a molte dinamiche del nostro Sistema. Avendo costruito un progetto in proprio con altre persone, pur lavorando con tante realtà istituzionali e affrontando ovvie difficoltà, ho lavorato in un contesto protetto. Comprendere bene il Sistema in cui ci si muove e come le cose si condizionano reciprocamente è certamente fondamentale, per cui il contrario può essere un limite».

Prossimi progetti?
«Stiamo lavorando alla prossima edizione di Video Sound Art Festival, che si terrà a Milano a novembre. Questa quindicesima edizione sarà ispirata alla nuova opera Never Ground dell’artista Natália Trejbalová, prodotta dal festival e acquisita dal Museion».

Chi è Laura Lamonea
Laura Lamonea è curatrice e direttrice artistica. Attualmente è la nuova direttrice artistica di ArtVerona. Nel 2010 fonda il progetto Video Sound Art a Milano, festival di arte contemporanea e centro di produzione, curando progetti in sedi espositive abitate dalla comunità, con l’intento di testare la capacità di adattamento dell’arte all’interno della società. Per VSA ha collaborato con artisti quali Yuri Ancarani, Haig Aivazian, Evangelia Kranioti, Rania Stephan, Mika Rottemberg, e costruito screening e progetti espositivi con opere di David Claerbout, Cyprien Gaillard, Edith Dekyndt, Pierre Camille Henrot, Pierre Huyghe, Hito Steyerl.

Nel 2021 ha curato la mostra Gestus presso il Teatrino di Palazzo Grassi a Venezia con artisti quali Annamaria Ajmone, Ludovica Carbotta, Caterina Gobbi, Andrea di Lorenzo, Enrique Ramirez, Luca Trevisani, Driant Zeneli. Nel 2018 ha curato la mostra Talpe tra gli eventi collaterali di Manifesta 12 a Palermo, e Mine, mostra personale di Ali Kazma presso l’Ex Albergo Diurno Venezia a Milano. Ha organizzato residenze artistiche in collaborazione con istituzioni quali Palazzo Abatellis e la Real Fabbrica di Capodimonte.
È impegnata nello sviluppo di progetti artistici che prevedono forme di collaborazione integrata con istituzioni e fondazioni private con il coinvolgimento di università e istituti superiori di secondo grado.

Nel 2022 ha curato la produzione esecutiva del film di Driant Zeneli, sostenuto dalla Fondazione In Between Art Film e presentato in occasione di Manifesta 14 in Kosovo. Nel 2023 ha condotto una ricerca sulle opere video presso l’archivio del Centre National des Arts Plastiques (CNAP) di Parigi. Attualmente è tra i vincitori della 13ma edizione di Italian Council con il progetto Never Ground di Natália Trejbalová.














