02 agosto 2025

Focus curatori in 22 domande: intervista a Simone Ciglia

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22 domande per curatrici e curatori, spesso outsider, per raccontare tutte le declinazioni più attuali di un ruolo di responsabilità: la parola a Simone Ciglia, “curatore che si prende cura”

Matteo Fato, L’albero reale e l’albero dipinto si sostengono a vicenda, 2015-2025, vela per paranza in lino cucita con pulitura pennello su stracci, 700 x 500 cm ca., fiocco per paranza in lino dipinto ad olio, paranza di Mario Camplone Foto Michele Alberto Sereni Courtesy dell’artista; Fondazione La Rocca, Pescara Realizzata nell’ambito della mostra Il difficile è dimenticare ciò che si è visto per casa (Ritratto di Pescara per caso). Matteo Fato, a cura di Simone Ciglia, Fondazione La Rocca, Pescara, 1 luglio–27 settembre 2025

Prosegue il nostro FOCUS curatori, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La nuova puntata della nostra rubrica ha per protagonista Simone Ciglia.

Veduta della mostra Vita Activa. Figure del lavoro nell’arte contemporanea, a cura di Simone Ciglia, Ex Palazzetto Albanese, Fondazione Aria, Pescara, 11 luglio–12 settembre 2014. Opere di Bruno Munari, Gianfranco Baruchello, Liam Gillick. Foto Paolo Angelucci

Come ti definiresti?

«Parafrasando Luca Vitone, potrei dire: Animale Uomo Europeo Italiano – Americano Abruzzese Pescarese Io. Mi sento anche definito dal mio titolo di studio: Storico dell’arte contemporanea».

Dove sei nato e dove vivi?

«Sono nato a Pescara. Vivo fra Portland ed Eugene in Oregon, negli Stati Uniti».

Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?

«Sarei voluto nascere negli Stati Uniti e aver vissuto la stagione degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Vorrei vivere in maniera itinerante per il mondo».

Veduta della mostra I would prefer not to / Preferirei di no. Esercizi di sottrazione nell’ultima arte italiana. 16a Quadriennale d’Arte. Altri tempi, altri miti, a cura di Simone Ciglia e Luigia Lonardelli, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 13 ottobre 2016–8 gennaio 2017. Opere di Invernomuto. Foto OKNOstudio

Quando hai capito che ti interessava l’arte?

«L’arte era uno dei molti interessi fin dall’infanzia. Notando che una mia compagna di classe alle elementari era più brava di me nel disegno, smisi di praticarlo con convinzione. Ricordo poi i viaggi organizzati dai miei nonni in giro per l’Italia a vedere mostre, città e monumenti. Al momento di scegliere l’università, la scelta è caduta sulla storia dell’arte – presso la Sapienza a Roma – perché avevo intuito che in quest’ambito avrei potuto ritrovare tutti i miei interessi umanistici legati a letteratura, filosofia, storia, geografia».

Quando hai deciso che avresti fatto il curatore?

«La curatela non è stata una decisione deliberata: si è sviluppata in maniera organica dal coinvolgimento nel mondo dell’arte, e ancora adesso non la considero esclusiva ma solo una componente della mia attività. Non amo definirmi “curatore”, traggo tuttavia immenso piacere dal progettare una mostra, selezionare artisti e opere, allestire opere nello spazio».

Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatore?

«La bibliografia che mi accompagna a livello professionale è estesa e quindi difficile da elencare qui. Una porzione rilevante l’ho inclusa nel corso di Exhibition histories che insegno alla University of Oregon. Ad esempio, Biennials and Beyond: Exhibitions that Made Art History, 1962-2002, curato da Bruce Altshuler, è un testo-guida che analizza una serie di mostre seminali del secondo Novecento. Un altro libro che considero fondazionale, e sul quale torno spesso, è Art since 1900. Modernism, Antimodernism, Postmodernism (di Hal Foster, Rosalind Krauss, Yve-Alain Bois, Benjamin H.D. Buchloh, David Joselit). Ovviamente, il lavoro di Hans Ulrich Obrist è una pietra miliare (A Brief History of Curating, Ways of Curating). Ci sono poi i testi specifici sulle mostre, troppi per essere elencati qui; ogni progetto porta con sé la propria specifica bibliografia.

La mia formazione, comunque, non è avvenuta in ambito curatoriale e molta della mia conoscenza l’ho acquisita sul campo, dal confronto con gli artisti, le istituzioni e gli spazi in cui ho lavorato».

Veduta della mostra Sul filo dell’immagine. Trame dell’arazzo contemporaneo, a cura di Simone Ciglia, Palazzo De Sanctis, Fondazione Malvina Menegaz, Castelbasso (TE), 21 luglio–1 settembre 2019. Opere di Afro. Foto Gino Di Paolo

Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?

«Nel mio lavoro, amo mettere l’arte in risonanza con altre discipline. Una grande fonte è la letteratura, specialmente quella contemporanea. Ad esempio, le Lezioni americane di Calvino hanno fornito il concept per la 75a edizione del Premio Michetti lo scorso anno (6 memo per questo millennio), nella quale i sei concetti proposti dallo scrittore per quello che nel frattempo è diventato il nostro millennio – leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, coerenza – sono stati interpretati da altrettanti artisti contemporanei. La celebre risposta di Bartleby, the Scrivener di Melville ha suggerito il tema della sezione della Quadriennale che ho curato nel 2016 insieme a Luigia Lonardelli (I would prefer not to / Preferirei di no. Esercizi di sottrazione nell’ultima arte italiana).

La filosofia è un’altra disciplina che innerva la mia pratica. La mostra Vita activa. Figure del lavoro nell’arte contemporanea – che ho curato nel 2014 per la Fondazione Aria a Pescara – era ispirata al lavoro di Hannah Arendt.

Il tentativo di comprensione del presente trova poi nel giornalismo un’altra fonte essenziale.

Le fondamenta di questo metodo interdisciplinare poggiano sulla storia, retaggio della mia formazione di storico dell’arte. Ricordo sempre la lezione di Edward Carr: «II passato è comprensibile per noi soltanto alla luce del presente, e possiamo comprendere il presente unicamente alla luce del passato. Far sì che l’uomo possa comprendere la società del passato e accrescere il proprio dominio sulla società presente: questa è la duplice funzione della storia».

Veduta della mostra La forma della terra. Geografia della ceramica contemporanea, a cura di Simone Ciglia, Palazzo De Sanctis, Fondazione Malvina Menegaz, Castelbasso (TE), 25 luglio–30 agosto 2020. Opere di Enzo Cucchi. Foto Gino Di Paolo

Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?

«Le mostre che mi hanno segnato sono numerosissime; dovendone ridurne il numero a una sola, direi Fuoriuso, per il momento in cui ho incontrato questa mostra (quello della formazione) e per la sua prossimità (a Pescara, dove sono nato). Alla storia di questa mostra, che si è svolta dal 1990 al 2016 in diversi luoghi in disuso della città, ho dedicato infatti la tesi di laurea specialistica.

Personalmente, la sua importanza è dovuta alla questione della relazione fra l’arte e il suo contesto – in questo caso sempre diverso e sempre legato alla vita quotidiana – che rivela la capacità dell’arte di mettersi in ascolto del luogo, accogliendone le contingenze ed espandendo le sue possibilità di significazione. Un altro elemento di Fuoriuso che ha lasciato una traccia profonda in me sono i diversi temi delle mostre: in particolare, le edizioni curate da Giacinto Di Pietrantonio (il curatore che ha lasciato un segno maggiore nella storia della manifestazione) mi hanno svelato la potenzialità della curatela come atto creativo. È stato per me un onore poter chiudere il cerchio curando, proprio insieme a Di Pietrantonio, l’ultimo capitolo della mostra nel 2016 (Avviso di garanzia)».

Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?

«Non c’è un’unica opera d’arte che mi ha indirizzato verso la professione nelle arti visive. Retrospettivamente, posso ricondurre alcune tracce all’educazione visiva ricevuta nell’infanzia. Ricordo una serie di libri di fiabe di diversi paesi del mondo (fiabe indiane, danubiane e altre) regalati dai miei genitori: le splendide illustrazioni sono state una rivelazione del potere dell’immagine e della sua complessità culturale.

Ricordo inoltre l’esercizio di colorare un libro da disegno insieme alla mia baby-sitter: la sua indicazione di usare tocchi di rosa per dipingere una pera è stata una piccola epifania della libertà dell’arte. Più tardi, la prima mostra che ho visitato con una certa consapevolezza – Matisse. La révélation m’est venue de l’Orient, a Roma nel 1997 – è stata un’altra scoperta sulla possibilità di fare dell’arte una scelta professionale. La visione dei papier découpé matissiani è stata piuttosto sconvolgente: per molti anni, un poster di questa serie ha abitato la mia camera».

Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?

«Gli incontri con gli artisti sono stati numerosi e ciascuno ha contribuito in maniera diversa alla mia crescita e consapevolezza nell’avviamento professionale. Il primo artista con cui ho stabilito un dialogo è stato Matteo Fato, al quale sono ancora molto legato a vent’anni di distanza. Altri incontri che hanno formato la mia visione dell’arte sono stati con gli artisti gravitanti intorno alla galleria Manzo e a Fuoriuso a Pescara – come Michelangelo Pistoletto, Jimmie Durham, Luca Vitone. La galleria Vistamare è stato un altro dei luoghi di affezione nella mia educazione visiva. Una presenza potente sul territorio era quella di Ettore Spalletti: ricordo ancora l’emozione della prima visita al suo studio. Si tratta di artisti molto diversi per generazione, provenienza e linguaggio; ciascuno ha avuto un’importanza specifica per me.

Tutti, però, hanno incarnato ciò che non trovavo sui libri che studiavo: la tridimensionalità dell’arte e della figura dell’artista con la sua umanità, la complessità del sistema entro il quale si muove, i processi di negoziazione cui l’arte è soggetta quando entra nella dimensione pubblica».

Veduta della mostra L’umanità degli oggetti / The humanness of objects. Jason Dodge, Giovanni Termini, a cura di Simone Ciglia, Kappa-Nöun, San Lazzaro di Savena (BO), 8 settembre–30 ottobre 2022. Opere di Giovanni Termini, Jason Dodge. Foto Carlo Favero

Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?

«Ho già menzionato alcuni incontri fatali nel momento decisivo della formazione, come quello con Giacinto Di Pietrantonio. Successive collaborazioni, fra cui quelle con Cristiana Perrella e Ludovico Pratesi, hanno arricchito la mia comprensione delle possibilità della curatela. Un’altra delle fortune avute è stata lavorare come assistente ricercatore al MAXXI sotto la direzione di Hou Hanru, la cui visione globale ha espanso i miei orizzonti.

A questi maestri diretti, se ne aggiungono molti altri indiretti che ho potuto conoscere attraverso lo studio o la visita a mostre (per citarne solo alcuni: Wim Beeren, Nicolas Bourriaud, Germano Celant, Carolyn Christov-Bakargiev, Achille Bonito Oliva, Okwui Enwezor, Massimiliano Gioni, Pontus Hultén, Lucy Lippard, Kynaston McShine, Hans Ulrich Obrist, Seth Siegelaub, Harald Szeemann). Allo stesso modo, mi sono stati maestri gli artisti con cui ho lavorato e dai quali ho appreso moltissimo».

Con quale progetto hai iniziato a definirti curatore?

«Dopo le prime prove, credo che la mostra Vita activa. Figure del lavoro nell’arte contemporanea abbia segnato uno scatto nella mia traiettoria. Come ho menzionato in precedenze, il progetto si basava il suo concept sul saggio di Hannah Arendt Vita Activa (originariamente pubblicato con il titolo The Human Condition nel 1958). La questione del lavoro veniva indagata attraverso le categorie filosofiche arendtiane e situata nel luogo, un palazzetto in disuso precedentemente sede di un negozio di abbigliamento. Fino a quel momento, non avevo avuto a disposizione spazi e risorse per poter realizzare una visione curatoriale in maniera così articolata».

Qual è la tua definizione di curatore?

«Colui che si prende cura. Il compito della curatela – come afferma Obrist – è di “creare giunzioni, consentire a differenti elementi di toccarsi” ma anche “il tentativo di impollinazione di cultura, o una forma di cartografia che apre nuove strade attraverso una città, un popolo o un mondo”».

Qual è la tua giornata tipo?

«Non ho una giornata tipo. L’agenda è dettata dal periodo dell’anno e dal luogo in cui mi trovo. In generale, seguo il ritmo dell’anno accademico. Quando non insegno, amo fare ricerca e viaggiare».

Hai dei riti particolari quando lavori?

«Non so se possa essere definito un rito particolare ma amo trascorrere tempo da solo nello spazio espositivo vuoto prima d’iniziare il montaggio di una mostra».

C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?

«Sì, credo sia importante lasciare spazio per l’imprevisto. I progetti che preparo nell’installazione delle mostre sono sempre aperti a soluzioni che si determinano in maniera contingente durante le fasi di montaggio. Il confronto con la materialità dell’opera e la fisicità dello spettatore (l’embodiment) nello spazio sono decisivi».

Veduta della mostra 6 memo per questo millennio. 75 Premio Michetti, a cura di Simone Ciglia, Museo Michetti, Francavilla al Mare (CH), 20 luglio–6 ottobre 2024. Opere di Claire Fontaine, Mario Ceroli. Foto Michele Alberto Sereni

Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?

«In generale, mi sento rappresentato da ogni mostra che ho curato. Probabilmente, quella che descrive in maniera più completa il mio approccio è Il campo espanso. Arte e agricoltura in Italia dagli anni Sessanta a oggi, da poco conclusasi a Palazzo Collicola a Spoleto. La mostra, infatti, sviluppa in senso espositivo la ricerca svolta per il libro omonimo (pubblicato da Crea nel 2015), da cui è derivato anche un corso che insegno da tre anni all’università. Questa osmosi tra ricerca, didattica e curatela mi sembra una dimensione rappresentativa della mia pratica, o almeno un ideale verso cui tendere».

A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?

«Riassumendo una questione lunga e complessa, ho l’impressione che il nostro Paese stia attraversando una situazione di tramonto critico. Il mercato, la politica, lo spettacolo (i social media in particolare) sono forze che agiscono nel campo dell’arte in maniera sempre più potente, contribuendo a determinare la perdita di centralità del discorso critico (naturalmente non solo in Italia). La scrittura che accompagna l’arte – strumento tradizionale dell’atto critico – mi sembra abbassata e appiattita. Mi sembrano poche le voci, come ad esempio quella di Stefano Chiodi, che continuano ad esercitare la funzione critica nel senso più profondo del termine».

Veduta della mostra Il campo espanso. Arte e agricoltura in Italia dagli anni Sessanta ad oggi, a cura di Simone Ciglia, Palazzo Collicola, Spoleto, 23 marzo–8 giugno 2025. Opere di Mario Giacomelli, Riccardo Baruzzi. Foto Giuliano Vaccai

Quali sono i tuoi riferimenti critici?

«Ai nomi già menzionati nelle precedenti risposte, aggiungerei Giulio Carlo Argan, sui cui testi mi sono formato, come pure il gruppo di critici orbitanti intorno alla rivista October. Il professore con cui ho studiato all’Università, Claudio Zambianchi, è un altro punto luminoso di questa costellazione».

La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?

«Ragionando in termini storici, Live In Your Head: When Attitudes Become Form. Più recentemente, avrei voluto lavorare all’ultimo riallestimento della collezione del MoMA presentato nel 2019».

Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?

«Trovo limitante una persistente divisione fra il mondo accademico e quello della pratica espositiva: non m’identifico pienamente in nessuno dei due e lavoro per una loro compenetrazione».

Progetti in corso e prossimi?

«È attualmente in corso Il difficile è dimenticare ciò che si è visto per casa (Ritratto di Pescara per caso), una mostra diffusa dell’artista Matteo Fato a Pescara, promossa dalla Fondazione La Rocca e articolata in numerosi siti della città. È un progetto di grande estensione e di forte coinvolgimento personale che mi ha fatto tornare nella città in cui sono nato, in compagnia del primo artista con cui abbia iniziato una conversazione.

Al momento sto anche lavorando con la mia collega artista Tannaz Farsi alla co-curatela di una mostra sul tema dell’archivio, che inaugurerà a gennaio dell’anno prossimo a Ditch Projects (Eugene, OR).

Il futuro contiene altri progetti espostivi e di ricerca che è prematuro svelare ora».

Chi è Simone Ciglia

Simone Ciglia (Pescara, Italia, 1982) è uno storico dell’arte, curatore e critico, attualmente Teaching Professor presso il Dipartimento di Storia dell’Arte e dell’Architettura dell’Università dell’Oregon (Stati Uniti). Le sue aree di ricerca si concentrano sugli spazi marginali dell’arte contemporanea, con particolare attenzione alla relazione tra arte, agricoltura, artigianato e impulsi utopici/distopici. Collabora come corrispondente per la rivista Flash Art e ha partecipato a numerosi progetti editoriali, tra cui collaborazioni con Treccani e Zanichelli.

Tra i suoi progetti curatoriali recenti: Il difficile è dimenticare ciò che si è visto per casa (Ritratto di Pescara per caso). Matteo Fato (Fondazione La Rocca, Pescara), 2025; Il campo espanso. Arte e agricoltura in Italia dagli anni Sessanta a oggi (Palazzo Collicola, Spoleto), 2025; 6 memo per questo millennio. 75° Premio Michetti (Museo Michetti, Francavilla al Mare), 2024. Ha inoltre curato progetti per Pesaro 2024 Capitale Italiana della Cultura, Fondazione Malvina Menegaz, 16ª Quadriennale di Roma.

Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Urbino ed è stato assistente ricercatore presso il MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Storia dell’arte contemporanea presso la Sapienza-Università di Roma.

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