19 novembre 2022

Focus curatori in 22 domande: la parola a Domenico de Chirico

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22 domande per curatrici e curatori, spesso outsider, per raccontare tutte le declinazioni più attuali di un ruolo di responsabilità: intervista a Domenico de Chirico, “curatore lunare”

Ph © Tassili Calatroni - 2016 - iD Magazine Italia

Prosegue il nostro “FOCUS curatori”, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La terza puntata della nostra rubrica ha per protagonista Domenico de Chirico, che abbiamo raggiunto per questa intervista.

EMERALD SYRUP FROM THE ORCHARD OF PROMISES, Fait Gallery, Brno

Come ti definiresti?

«Sensibile, lunare, tenace».

Dove sei nato e dove vivi?

«Sono nato trentanove anni fa a Terlizzi, comune italiano di circa 26.000 abitanti della città metropolitana di Bari in Puglia. Vivo a Milano da ormai molti anni, quindici all’incirca».

Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?

«Ora e qui, seppur in un mondo migliore, più dinamico e inclusivo, pacifico, laddove le sfumature costituiscono un punto di forza inespugnabile e la gentilezza impera, un mondo facente parte di un universo in cui, come sosteneva Walter Benjamin, viene inequivocabilmente favorita quella «condizione essenziale della resa estetica più elevata».

Glyphs, Nika Neelova, Noire, Turin, Photo © Luisa Porta

Quando hai capito che ti interessava l’arte?

«In cuor mio, l’ho sempre saputo».

Quando hai deciso che avresti fatto il curatore?

«Non l’ho deciso poiché, avendolo sempre desiderato, ho fatto in modo che accadesse, con impegno duro e serrato, passando anche per quella che tutti quanti noi conosciamo, almeno per sentito dire, come modestissima gavetta».

Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatore?

«Ce ne sono tanti, moltissimi. Tra gli altri: Louise Bourgeois “Distruzione del padre / Ricostruzione del padre” (Scritti e interviste); Pierre Klossowski “Le leggi dell’ospitalità”; David Batchelor “Cromofobia. Storia della paura del colore”; Maurice Merleau-Ponty “La natura”; Jean- Luc Nancy “Tre saggi sull’immagine”; Kazimir Malevic “Suprematismo”; “Giorgio de Chirico. Il mistero laico”, “Oppio” e “La voce umana. La macchina infernale” di Jean Cocteau; “Il teatro e il suo doppio” di Antonin Artaud; “Arte povera” di Giovanni Lista; Martin Heidegger “L’origine dell’opera d’arte” e “Introduzione all’estetica”; Mark Rothko “Scritti sull’arte”; “La storia dell’arte” di Ernst H. Gombrich; Mario Perniola “L’arte e la sua ombra”; “Pittura, fotografia, film” di Laszlo Moholy-Nagy; “Paludi-I nutrimenti terrestri” di André Gide; Friedrich Nietzsche “La nascita della tragedia (dallo spirito della musica)”; “La società dello spettacolo” di Guy Debord; BEUYS BOOK di Klaus Staeck e Gerhard Steidl; “Ritratto d’artista” di Egon Schiele; “Elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam; “Candido o l’ottimismo” di Voltaire; “Foglie d’erba” di Walt Whitman; “Gita al faro” di Virginia Woolf; “Controcorrente” di Joris-Karl Huysmans; “La pioggia nel pineto”, lirica di Gabriele D’Annunzio e così via».

Kazimir Malevic, Suprematismo

Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-artivisive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?

«Ho sempre ascoltato tantissima musica, spaziando da Blonde Redhead e Diamanda Galás a Johann Sebastian Bach e Georg Friedrich Händel, passando per Glenn Gould, Sonic Youth e Giovanni Battista Pergolesi, per citarne solo alcuni. Per quanto riguarda il cinema, altra grande fonte di ispirazione, volendo menzionare alcuni registi e relativi film: “Metropolis” di Fritz Lang, “In the Mood for Love” e “2046” di Wong Kar-wai, “Roma città aperta” di Roberto Rossellini e poi Luchino Visconti, Louis Malle, Jean-Luc Godard, François Truffaut, Matthew Barney, Pier Paolo Pasolini, Krzysztof Kieślowski, Derek Jarman, Federico Fellini e così via. A questo aggiungo il teatro, soprattutto quello di matrice ellenistica, la danza contemporanea e le arti performative. E poi ancora viaggiare, cucinare, condividere. La poesia e gli epigrammi, la moda e il design.

Oltre a ciò, in questo momento mi sto dedicando alla bibliografia della scrittrice francese Violette Leduc e a quella del drammaturgo e saggista rumeno, naturalizzato francese, Eugène Ionesco».

Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?

«Difficile indicarne una in particolare tra tutte quelle che ho avuto la fortuna di visitare e quelle di cui, ahimè, i miei occhi e il mio cuore non hanno potuto godere per svariati motivi».

Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?

«Ce ne sono tre in particolare, seppur non le uniche, ovvero:“Arch of Hysteria” di Louise Bourgeois del 1993, “Guernica” di Pablo Picasso del 1937 e “Musa dormiente” di Constantin Brâncuşi del 1910».

Quai artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?

«Ricordo con grande piacere di aver condiviso un’esperienza professionale con l’artista americana Donna Huanca, entrambi abbiamo presentato due progetti espositivi differenti presso gli spazi della galleria parigina Chez Valentin, nell’ormai lontano 2015, in cui Huanca ha esordito in Francia con un’importante mostra personale e io, in concomitanza, ho curato una mostra collettiva, il cui titolo era “You will find me if you want me in the garden”, con opere di: Alessandro Agudio, Stefania Batoeva, Sol Calero, Simon Dybbroe Møller, Carson Fisk-Vittori, Ditte Gantriis, Pakui Hardware (in collaboration with Jeannine Han), Daniel Keller, Spencer Longo, Matthew Smith, Anna Virnich e Andrew Norman Wilson. È stata certamente una collaborazione di estrema importanza poiché, in certo senso, ha dato il via alla mia carriera da curatore a livello internazionale.

Detto ciò, ne ho incontrati molti altri di artisti che hanno lasciato un segno indelebile, anche in situazioni analoghe, tra cui, in primis: conoscere personalmente Shirin Neshat e lavorare con AES+F, Joël Andrianomearisoa e Valentin Carron, per citarne solo alcuni. Per ultimi, cronologicamente parlando, seppur non più in vita, ho avuto il piacere di includere in una mostra collettiva che ho curato di recente presso la galleria Belenius di Stoccolma un magnifico lavoro di Dorothea Tanning e nell’edizione 2022 di MIA Fair a Milano di poter collaborare con l’Association Internationale Man Ray».

Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?

«A livello internazionale, ho avuto la fortuna di iniziare il mio percorso da curatore indipendente sotto l’egida di galleristi del calibro di Philippe Valentin e Mihai Nicodim. Entrambe le collaborazioni sono avvenute nel 2015. Custodisco ancora oggi piuttosto scrupolosamente i consigli datimi da coloro che mi hanno sostenuto sin dagli albori».

Qual è la tua definizione di curatore?

«Partendo dall’etimologia, il verbo deriva dal latino cūrare, a sua volta derivato di cura «cura» e più anticamente coera e coira, che gli antichi etimologisti ricongiunsero a cor, cuore, e fantasiando tramandarono l’assioma quia cor urat, perché stimola e scalda il cuore, lo fa pulsare e lo consuma. In termini pratici, mi piace fare riferimento alla definizione di Dorothee Richter, curatrice, storica dell’arte e critica, la quale sostiene che: «la curatela è una formazione discorsiva come l’ha descritta Michel Foucault; produce inclusioni ed esclusioni, regola ciò che è giusto o sbagliato (“buona” o “cattiva” arte), produce costellazioni di società e istituzioni discorsive, condizioni materiali (produzione, budget, ecc.). In questo senso, curare significa produrre conoscenza e verità». Senza mai dimenticarsi di essere umani».

Philipp Pflugg, Tobias Donat + Piktogram, Krystian Truth Czaplicki

Qual è la tua giornata tipo?

«Sono piuttosto mattiniero e le mie giornate variano a seconda degli impegni quotidiani».

Hai dei riti particolari quando lavori?

«Silenzio assoluto».

C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?

«L’imprevisto è sempre in agguato. Difatti, credo che la flessibilità sia una delle caratteristiche imprescindibili, tra le più necessarie e richieste oggigiorno».

Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?

«Probabilmente una mostra collettiva del 2018 intitolata “Le Bel Été”, presso i magnifici spazi espositivi della galleria torinese Noire, la cui ispirazione nasce da “La bella estate”, raccolta di tre romanzi brevi scritti da Cesare Pavese, con opere dei seguenti artisti: Kasper Bosmans, Michal Budny, Valentin Carron, Alexandre da Cunha, Kaye Donachie, Christian Holstad, Sebastian Jefford, Piotr Łakomy, Angelika Loderer, Loup Sarion, Astrid Svangren. Parlando di fiere, invece, DAMA a Torino, di cui ho curato le prime quattro edizioni».

So Indolent So Sneaky, Valentin Carron and Gardar Eide Einarsson, Noire, Turin, Photo @ Luisa Porta

A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?

«Dovrebbe essere meno politicizzata. Tuttavia, non ne escludo la reale qualità».

Quali sono i tuoi riferimenti critici?

«(Istintivamente) Germano Celant?».

La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?

«Onestamente potrebbero essercene diverse. Tuttavia, non è semplice rispondere a questa domanda in quanto una mostra già realizzata con una sua curatela ha già una struttura propria e quindi mi risulta complicato considerare tale possibilità a priori. Se invece la questione viene posta in termini di artisti, opere e spazi, sicuramente ce ne possono essere diverse».

Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?

«Probabilmente l’eccessiva disponibilità di cui certuni sovente si approfittano».

DAMA Art Fair, 2018

Progetti in corso e prossimi?

«Tra gli altri, ci tengo a menzionare una mostra collettiva, tra i progetti più imminenti, su cui sto lavorando in questo momento, in collaborazione con tredici artisti internazionali e che verrà inaugurata nella seconda metà di gennaio prossimo presso la galleria Double Q di Hong Kong, estensione della fondazione Q Contemporary di Budapest».

Chi è Domenico de Chirico

Domenico de Chirico è un curatore indipendente italiano. Nato a Terlizzi (Bari) nel 1983, vive e lavora a Milano. Si è laureato con lode in Lingue e Letterature Straniere con una tesi in Storia Comparata dell’Arte dei Paesi Europei (con un focus sull’Europa dell’Est e in particolare sul lavoro di Dan e Lia Perjovschi).

Joël Andrianomearisoa, Tomorrow, tomorrow, Sabrina Amrani, Madrid

Dal 2011 al 2015 è stato docente di “Cultura visiva” e “Ricerca delle tendenze” presso l’Istituto Europeo di Design (IED) di Milano. Collabora con numerosi artisti internazionali, gallerie, istituzioni, fiere d’arte, premi d’arte e riviste. È stato direttore artistico della Fiera DAMA, Torino, Italia (2016-2019). È stato anche visiting tutor presso Goldsmiths, University of London (2018) e membro del Network Event for Young Curators, LISTE-Art Fair Basel, Basilea, Svizzera (2018).

Prossimi progetti e ricerche: Swab Barcelona Contemporary Art Fair, Barcellona, Spagna (membro del comitato scientifico); MIA Photo Fair, Milano, Italia (curatore della sezione “Beyond Photography: Dialogue”); BIENVENUE Art Fair, Parigi, Francia (curatore associato); Prisma Art Prize, Roma, Italia (curatore dell’edizione 2023 del premio); Istituto Svizzero, Roma (visiting curator).

Oren Pinhassi, Nature calls, 2017, installation view, RIBOT, Milan

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