24 gennaio 2022

Giuseppe De Mattia, Lavoretto – Toast Project Space

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"Lavoretto" è un ritratto della condizione contemporanea dell’artista “mid-career”, che Giuseppe De Mattia ha realizzato trasformando la ex-portineria di Toast in un call center

Giuseppe De Mattia, Lavoretto, 2021, Toast Project Space, Ph. Leonardo Morfini, ADRYA

Lavoretto (mostra in corso presso il Toast Project Space di Firenze), Fatterelli (opere del 2021, una di queste in mostra alla LABS gallery di Bologna, 2021) sono evidentemente dei diminutivi, che indicano l’incidentalità dell’azione o dell’opera, il suo volare basso, l’appartenere alla sfera del quotidiano anonimo e operoso. Questi diminutivi e quasi vezzeggiativi appartengono al registro caro e costante di Giuseppe De Mattia, che opera con oggetti, gesti e segni che appartengono alla normalità e rientrano nella semiotica della banalità e ripetitività giornaliera, come scarabocchiare un foglietto di carta mentre si parla al telefono, come togliere dalle tasche resti senza importanza, come ridisegnare elastici caduti e infine come riprendere immagini a bassa definizione che appartengono ai filmini amatoriali di Home Movies e potrei continuare. Poi naturalmente quei “reperti” minimali ai limiti dell’immateriale, selezionati dall’artista, rientrano in una processualità complessa e diventano opere, dall’orizzonte della normalità assurgono al regno dell’estetica e stimolano l’attenzione e il pensiero dello spettatore, che ricostruisce “a rebours” il processo dell’artista.
Forse il niente può diventare arte, come ci insegnava già Élevage du pussière di Duchamp, scolpendo con la polvere il “tempo”.

Giuseppe De Mattia, Lavoretto, 2021, Toast Project Space, Ph. Leonardo Morfini, ADRYA

La medesima tattica viene utilizzata nella delegated performance e installazione Lavoretto: durante l’inaugurazione, nello spazio angusto del gabbiotto di Toast, sono seduti alla scrivania due performer che, seguendo le istruzioni dell’artista, chiamano musei e istituzioni per proporre l’opera, durante la “giornata di lavoro” (sono pagati dall’artista) fanno pausa pranzo, partita a calcetto e infine pizzetta serale. La simulazione riprende fedelmente una giornata tipo di un lavoratore da call center, né più né meno, senza afflati e moralismi. Le cose stanno così per i lavoratori tutti, compresi quelli dell’arte, si tratta di una vendita, rientra nelle regole del gioco.
Dal copione preordinato poi scaturiranno varie situazioni, situations commedy mi verrebbe da dire, che verranno fedelmente riportate nel catalogo della mostra.
De Mattia ritorna periodicamente su questo filone che mette in mostra ironicamente e beffardamente l’azione dell’artista nell’atto del vendere le proprie opere e se stesso. Ingegno e indipendenza, 2018, mostrava l’artista nei panni di un bancarellaro, che in sette “stazioni”, lungo via Indipendenza, inscenava una vendita clandestina, una truffa, come ribadiva Lorenzo Balbi nel catalogo di “That’s it!”. Nella sua seconda personale a Matèria, “Esposizione di frutta e verdura”, 2019, l’artista si serviva della metafora di un negozio di un fruttivendolo con tutti i suoi dispositivi veri e fittizi (sculture in ceramica dipinta), per commentare le azioni dell’artista e del contesto in cui si trova ad operare: istituzioni, critici, collezionisti, giornalisti, esperti o semplici amanti dell’arte.
Nella mostra alla LABS gallery di Bologna del 2021, intitolata “Narrazioni Brevi”, in fin dei conti una micro-antologica, l’artista era il Gran Copiatore, 2021, l’artista che vendeva accanto ad una fotocopiatrice le opere costituite, al limite del nulla quindi, da una fotocopia autenticata.
Un salto di qualità di questo filone è il progetto It’s all true, 2021: dove tutto è fittizio, come in una pubblicità. L’artista, nelle vesti di Magnum P.I. con camicia hawaiana e Ray-Ban, l’orologio contraffatto (Il Rolex GMT 75), la Ferrari rossa (208 GT) in prestito – mi sembra di essere nell’ossessione per le marche dei prodotti di American Psycho – , ostenta ricchezza e sicurezza, un fake! Come quell’orologio che grazie al nuovo statuto di opera d’arte acquisisce il valore dell’oggetto autentico. Una bella bolla l’arte, come in quegli anni ’80 del boom che inscena De Mattia.

Giuseppe De Mattia, Lavoretto, 2021, Toast Project Space, Ph. Leonardo Morfini, ADRYA

Non sfugge nulla al sardonico ridimensionamento dell’artista, né se stesso, né le opere. Per De Mattia, un po’ forzatamente si è parlato di pittura. Forse quando cancella delle fotografie con del colore per lasciare evidente un brandello di immagine? Il resto sono per lo più dei segni, che scaturiscono da un’operazione meccanica, dove la mano dell’artista è del tutto sussidiaria, quando anche inesistente. Faccio qualche esempio: Picchio veloce, 2015, è uno strumento costruito dall’artista, che – proprio come un picchio che becca – fa dei puntini con una matita creando delle forme a nuvola. Giacca militare svizzera, 2016 in cui alla giacca sono state aggiunte due aste che finiscono in un dispositivo con delle matite; camminando, chi indossa la giacca, crea dei disegni involontari sui fogli stesi sul pavimento. Passando per i Disegni vigliacchi fatti dalle galline, camminando sopra a dei fogli e arrivando al Mare di Bologna, 2018. L’artista qui prende spunto dai disegni a onde fatti da anonimi operai sul cemento dei pavimenti sotto ai portici di Bologna: naturalmente le onde vengono interpretate dall’artista per i disegni piccoli con il ricalco di una forchetta, invece per le tele grandi con un forcone, le cui onde vengono dipinte da un segno blu dall’artista.
Ma in realtà tutte le opere di Giuseppe De Mattia sono originate da un motivo casuale, che viene addotto a strumento e pretesto di un processo meticoloso, ordinato, seriale, dove la selezione dei materiali: tipo di pittura, supporti, tipologia dei dispositivi è di grande raffinatezza e innesca un affinamento dello sguardo dello spettatore, la cui attenzione viene accelerata. La funzione dell’arte non è poi proprio quella, creare dei cortocircuiti nello spettatore, che viene riportato attraverso un’operazione anche spaesante ad un pensiero, un’attenzione, uno sguardo infine molto più attento?
La prassi “pittorica” di De Mattia che decostruisce l’immagine e usa dispositivi meccanici e ingegnosi per ricostruire brandelli di immaginario estetico ben sarebbe potuta entrare nella mostra “Stop Painting” appena chiusa alla Fondazione Prada di Venezia. Anche quella mostra infatti percorrendo un intero secolo non faceva altro che un’operazione post-strutturale sulla semantica della pittura, una negazione per ricostruire una prassi estetica di consapevolezza del mezzo.

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