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I primi 20 anni del Madre di Napoli: come l’arte ha trasformato un museo
Arte contemporanea
Cinque danzatori, immersi in un silenzio profondo, che incrociano i loro corpi, che rispettano o creano al momento pattern corografici. Ma senza sfidare quarte pareti o gli sguardi diretti dell’audience. Stavolta le loro ombre giocano a comporre sulle murature bianche del Palazzo Donnaregina, sede del Museo Madre di Napoli. Corpo, relazione, ambiguità, confusione. A chi è rivolto il gesto coreutico? Alla pietra tufacea o all’occhio dello spettatore? Dove inizia ma soprattutto dove termina lo spazio e la relazione poetici disegnati dal corpo con la materia animata e inanimata?


Questo gioco di specchi tra cavea, scena e orchestra – pubblico, attori e orchestra nel teatro greco antico – è l’anima di Rub Up on Madre, performance site specific del coreografo e ballerino australiano Adam Linder a cura di Gigiotto Del Vecchio. Un lavoro pensato per festeggiare i 20 anni del Museo Madre, prodotto dalla Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, con l’organizzazione di Archivorum e il supporto degli Amici del Madre.


Una commistione di sensazioni ed emozioni diverse, che si riflette anche nell’ultimo allestimento della mostra Euforia, di Tomaso Binga, alias Bianca Pucciarelli Menna, classe 1931, visual artist e protagonista della poesia fonetico-sonora-performativa italiana. In collaborazione con il collettivo multidisciplinare Rio Grande, l’allestimento della mostra prevede vie alternative, fisiche ed esperienziali di fruizione, che anche in questo caso sovvertono il rapporto top-down tra arte e destinatari, ponendo l’accento piuttosto su una trama di relazioni e condivisioni. Insomma relazione, poesia, sperimentazione. Di questo e di altro abbiamo parlato con Angela Tecce ed Eva Fabbris, rispettivamente Presidentessa e Direttrice del Museo Madre, per ricordare il ventennale della prestigiosa istituzione cittadina.

Ogni volta che attraverso Piazza Plebiscito mi viene in mente la scena della persona – a volte è un uomo, altre una donna o un ragazzino – che ha divelto dal pavimento di Piazza Plebiscito uno dei teschi dell’installazione Spiriti di madreperla di Rebecca Horn, una delle visionarie opere site specific che diedero lustro alla rassegna Piazza d’Arte (1995-2009). Per quanto quello sia stato un atto vandalico, l’ho sempre considerato al contempo poetico, ispirato. Un gesto rozzo e romantico di portarsi un pezzo d’arte monumentale a casa. Siamo nel 2002 e da lì a poco nascerà il Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina, nel giugno del 2005. Il progetto vide la luce nel 2003 con la nascita della Fondazione Donnaregina per le Arti Contemporanee, sottoscritto dal Ministero dei Beni Culturali e dalla Regione Campania. Oltre alla mission di polo di produzione e attrazione dell’arte contemporanea a Napoli, vi era l’idea, visionaria e sofisticata, di accogliere, di proteggere tra le mura dello splendido Palazzo Donnaregina, quelle esperienze delle grandi installazioni di Piazza D’arte. Raccoglierne le atmosfere, le vicissitudini, le suggestioni: Mimmo Paladino, Richard Serra, Jannis Kounellis, Rebecca Horn, Joseph Kosuth. Un palazzo che si trasforma in piazza, in città dell’arte.
Presidentessa Tecce, lei ha assunto la presidenza della Fondazione Donnaregina dal 2021, quindi in una fase successiva. Cosa ricorda di quel periodo e cosa, secondo lei, è rimasto di quell’antica atmosfera?
«A quel momento di esaltante presa di coscienza di chi nell’arte ci viveva da sempre, ma anche di tutti quanti che avvertirono la potenza dell’arte contemporanea unita alla bellezza del contesto storico della città ho partecipato e l’apertura del museo Madre per me è stato l’esito non solo di quella esperienza, durata pochi anni, ma di decenni – direi oltre un secolo dalla nascita a fine Ottocento della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma – in cui si auspicava con forza che Napoli dovesse avere un museo dedicato all’arte del presente.
Il museo Novecento a Napoli a Castel Sant’Elmo, nato poco dopo, ha tentato di colmare questa sorta di vuoto di coscienza culturale, gettando una traccia per storicizzare il secolo passato, mentre il Madre è la costruzione di una relazione con il presente e con le sue complesse e affascinanti dinamiche. Dunque direi che l’eredità lasciataci da quell’entusiasmo con cui vennero accolte le installazioni in piazza del Plebiscito è sia fisicamente presente nelle opere della collezione permanente, in buona parte degli artisti protagonisti di quella stagione, sia nella consapevolezza della necessità via via crescente della creazione di un pubblico variegato che partecipi alla vita di questo luogo, che vorremmo diventasse non solo spazio di iniziative ispirate dalla scena artistica contemporanea ma soprattutto luogo di riflessione e sperimentazione, protagonista della nostra epoca multidisciplinare e intessuta di contaminazioni.

Il 6 giugno è caduto il ventennale della nascita del Museo Madre e della Fondazione Donnaregina, due istituzioni da sempre centrali nella promozione e nella diffusione dell’arte contemporanea a Napoli. Ma anche antesignane, in ambito museale, di un approccio innovativo, sperimentale, delle mission di un certo tipo di istituzione. Come il Premio Paul Thorel, in collaborazione con la omonima fondazione e incentrato sul rapporto tra arte e tecnologia, il progetto Materia di Studios dedicato al dialogo tra diverse generazioni di artisti, il Premio Meridiana, rivolto a curatori e artisti del territorio del Sud Italia, per parlare solo di alcune delle esperienze più recenti. Un vero e proprio laboratorio di esperienze attive, creative e narrative. Qualcosa di non convenzionale, soprattutto se immaginato in connessione e in complementarietà non solo con le altre grandi istituzioni museali della città – come il Museo di Capodimonte e il Museo del Novecento – ma anche in dialettica con quella sorta di “distretto industriale dell’arte” qual è la grande rete di gallerie private diffuse sul territorio napoletano.
Quali possono essere, secondo lei, i fattori di crescita e gli attori dell’innovazione sui cui puntare nel futuro per potenziare e integrare sempre di più queste complesse sinergie? Come può il Museo Madre rimanere ancora, per altri 20 anni e più, un punto di riferimento, di memoria culturale, storica e civile per l’arte contemporanea a Napoli?
«Prima di tutto spero che il Madre progetti il suo futuro guardando avanti per ben più che altri venti anni, ovviamente è una boutade ma pure allude a un metodo al quale ho accennato anche prima e che potrei riassumere nella necessità del museo di arte contemporanea di costruire una rete di connessioni.
Proprio gli esempi da te citati mostrano come il raggio delle azioni perseguite si modella sulla compresenza di scelte che ampliano l’offerta non solo nel senso della varietà ma anche nell’approccio transdisciplinare alle questioni fondamentali del nostro tempo. Quindi non solo apertura agli attori della scena dell’arte a Napoli – fondazioni, istituzioni, gallerie – che contribuiscono ad allargare la conoscenza di quanto accade oggi nel mondo, connessa all’attività espositiva propria del museo, ma anche trasversalità tra memoria e presente, attualizzando la memoria del territorio e poi, fondamentale, far partecipare il Madre insieme agli altri soggetti territoriali alla valorizzazione della ricerca artistica del Sud, impegnandosi a supportandola e dandole un orizzonte internazionale.
Insomma il Madre come luogo di creazione e sperimentazione con aperture senza confini, di cui è un esempio la scelta di festeggiare il ventesimo anniversario con la performance di un autore come Adam Linder – affidata a un curatore napoletano di nascita, qual è Gigiotto del Vecchio, ma vissuto a Berlino negli ultimi quindici anni – una performance che oltre alla qualità altissima dei contenuti ha creato una specie di contest forzando il pubblico a un confronto serrato con la fisicità dello spazio museale e la dimensione emotiva creata insieme dagli attori e dagli spettatori».

Direttrice Fabbris, lei è alla guida del Museo Madre dal 2023. Avrà notato come Napoli sia un città multistrato e in perenne movimento. In questi anni vorticosi è uscita (sta uscendo) dalla sua condizione di minorità economica, sociale e culturale. Alla volta di un nuovo orgoglio, di nuovi modi di presentarsi e soprattutto di auto-rappresentarsi. La città gode di un sostrato materiale e immateriale, sociale e collettivo invidiabile e per certi versi irripetibile. Ma allo stesso tempo, certe dinamiche, certe visioni minoritarie della città spingono verso processi auto-assolutori, se non di auto-compiacimento, che troppo spesso scadono in una sorta di falso sé. Facilmente traducibile in segnali di rapido consumo, alla volta di una città consunta, prêt-à-porter.
Come può un museo come il Madre, luogo privilegiato d’azione ma anche di osservazione della città, indicare prospettive e traiettorie alternative a queste complesse dinamiche appena accennate? Come può il Museo Madre riscoprire, disvelare quella complessità, riconoscere e mostrare al suo pubblico quelle sovrapposizioni, quei depositi di senso e di vitalità che hanno sempre rappresentato la vera ricchezza di Napoli. E, guarda caso, anche dell’arte contemporanea in generale? Quale è la visione d’insieme, di cui l’istituzione Museo Madre si deve dotare, per affrontare questa sfida così complessa?
«Il ventennale è occasione di riflessione a tutto tondo sul ruolo del museo oggi, e ovviamente la relazione con il nostro contesto socio-politico di riferimento è uno dei dati principali da tenere in considerazione. Mi ritrovo spesso in questi giorni di inizio delle attività di celebrazione a citare un testo recente che il museologo Hendrik Folkerts ha scritto insieme all’artista Cally Spooner che indica la necessità sempre più radicale e attuale di un museo come luogo del “being with” tanto quanto, se non più che del “looking at”. Nel momento in cui il Madre è luogo di messa in discussione di una spettatorialità tradizionalmente ‘ricevente’ ed è contesto per la costruzione di nuove narrative condivise, esso incarna e offre una premessa metodologica profondamente capace di indicare, ma anche di dare origine, a traiettorie interpretative nuove su vari temi. Faccio degli esempi.
L’allestimento della mostra di Tomaso Binga, concepito da Rio Grande in dialogo con l’artista, intende proporre un modello alternativo di fruizione di materiali relativi a decenni passati, abolendo il display a bacheche e rendendo fisico ed esperienziale, attraverso il design espositivo, il contenuto e l’energia espressi dalle opere stesse. Lo spettatore, tra tubi rosa e rossi, sperimenta l’attualità delle istanze poetiche e politiche alla base del lavoro dell’artista, oltre che avervi accesso tramite la tradizionale quanto sacrosanta fruizione classica delle opere e dei documenti.
Oppure: le celebrazioni per i vent’anni si sono aperte con tre giorni dedicati alla performance Rub Up on Madre di Adam Linder a cura di Gigiotto Del Vecchio. Un’opera concepita per il cortile del museo, della durata di tre ore durante le quali cinque ballerini alternavano movimenti di danza a evocazioni corporee di emotiva quotidianità, sempre tenendo il corpo rivolto alle pareti del cortile e quindi senza contatto visivo con lo spettatore. Ricca di implicazioni teoriche relative in particolare a desiderio, valore, tecnologia e psiche collettiva, la performance aveva le basiche caratteristiche di non poter essere letta in base a indicazioni tematiche o narrative, e di porre costantemente ciascuna spettatrice o spettatore di fronte alla scelta di quale ballerino seguire con lo sguardo…a mio avviso un potente richiamo ad un esercizio di libertà nella spettatorialità. Infine, l’incremento che abbiamo dato alle attività didattiche mostra una volontà di abbracciare il pensiero critico, la ricerca e il dialogo aperto, favorendo anche l’incontro diretto tra pratiche artistiche e pubblici con il programma di laboratori tenuti dagli artisti.
Solo se il museo è quindi un luogo dove esperire in prima persona il potere trasformativo delle opere d’arte, al suo interno nascono pensieri in grado di interpretare il presente, incluso quello bellissimo, stratificato, caotico e in cambiamento della sua città, tema al quale abbiamo tra l’altro dedicato la mostra Il resto di niente, che ho curato insieme a Giovanna Manzotti, da un’idea di Sabato De Sarno, nel 2024».















