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In Cina il museo WU SPACE Contemporary apre una nuova sede e inaugura con un artista italiano
Arte contemporanea
Filippo Berta si impone nel contesto artistico contemporaneo come figura di spicco per la sua ricerca articolata attorno alla grammatica del gesto. Una narrazione che procede per immagini in cui la semplicità di gesti elementari, determinati, ostinati e reiterativi si intreccia con la fragilità dell’essere umano che si esprime in diverse forme di confini e dualismi. I gesti, ritratti nella loro dimensione di atti minimali, si caricano progressivamente di una tensione simbolica, che traduce l’instabilità dell’essere umano in linguaggi visivi e performativi.
Al centro della poetica di Liminal si colloca il concetto di confine, indagato nelle diverse declinazioni che esso assume nei quattro atti in cui si articola la mostra: un confine intimo, un confine sociale, un confine autoriale e un confine esistenziale. Un percorso espositivo che si sviluppa secondo una struttura circolare, coreografica, dove ogni lavoro funge da preludio al successivo, innescando un dialogo costante tra forma e contenuto, tra individuo e collettività, tra urgenza e rappresentazione.
Nella mostra video, installazione, performance e fotografia rappresentano il mezzo attraverso cui narrare la diversità insita nell’essere umano. Ed è ogni singolo individuo che partecipa a elaborare e a dare vita a un insieme in cui la tensione si proietta verso il pubblico che, di conseguenza, collabora a sua volta nella costruzione di un corpo sociale unico.

Il primo atto: il confine intimo
Dovrebbe parlarsi più propriamente di un confine fisico, tangibile, esterno, e di un confine intimo, legati da un nesso di causalità: il lavoro analizza la risposta che la mente umana elabora quando l’esperienza del quotidiano costringe l’uomo ad una condizione di confinamento o esclusione, in cui la sua esistenza è scandita dalla presenza di confini controllati, muri e barriere, reali e simbolici. L’espressione dell’Io è compressa entro dei limiti fisici, materiali, reali, che egli non può valicare. One by one, lanciata nel 2021, è frutto dell’esperienza concreta di Filippo Berta nei paesi che sono l’emblema del confine: alcuni dislocati lungo il margine dell’Europa quali Ungheria, Serbia, Slovenia, Croazia, Grecia, Bulgaria, per arrivare ad un altro confine, il Messico, infine la Corea del sud e Macedonia del nord. Qui, Berta ha realizzato riprese video e azioni partecipative grazie al coinvolgimento degli abitanti delle aree di frontiera, chiedendo loro di contare ad alta voce, e nella propria lingua di appartenenza, le spine che costituiscono i fili di recinzione.
Potremmo chiederci come la mostra, che attinge a contesti geografici e geopolitici determinati, ben conosciuti da noi europei, si atteggi in un contesto il cui sostrato culturale è ben diverso. «La città di Shenyang è molto vicina alla Corea del Nord», racconta Berta a exibart «ed è abitata da una consistente comunità di coreani ai quali il problema del confine non è affatto estraneo ma vicino e tangibile e tale barriera, tale interferenza sociale nel raggiungere un pubblico diverso non sussiste. Inoltre, il muro, i fili spinati, le barriere fisiche non sono che il punto di partenza da cui prende le mosse una riflessione molto più articolata che investe un confine intimo, presente in ogni uomo, il quale è puzzle fatto di tanti frammenti e spine».
Nelle sale del WU Space Contemporary Art One by one prende forma attraverso una doppia presentazione nella Galleria 0 e nella Galleria 1. Il primo spazio è dominato da una scultura che si formalizza nel simbolo dell’infinito realizzata attraverso la fusione di tante spine del tipo “concertina”, il filo di produzione industriale composto da spine trapezoidali ed estremamente taglienti, emblema di un confine rigidamente imposto dagli stati e dalle autorità per isolare le comunità, che l’artista ha ritrovato come una trama lineare su ogni confine che ha raggiunto nel corso della sua produzione. La forma non è casuale ma si lega all’azione continuativa, ostinata e fallimentare della performance.
Nella Galleria 1 quattro proiezioni abitano lo spazio espositivo attraverso una disposizione angolare che restituisce allo spettatore una riflessione sulla fenomenologia e sull’estetica del confine e una drammaturgia visuale nella quale immagini dei luoghi, delle persone e dei confini tra loro lontani sono legati dal medesimo elemento di rottura, il filo spinato. L’installazione si compone anche di una cacofonia di lingue diverse che si fondono in un conteggio corale che si fa portatore di storie e drammi.

Secondo atto: il confine sociale
Nel secondo atto, il confine trascende l’individuo e si proietta sul tessuto sociale, divenendo strumento di rigida separazione tra uomini. Nell’opera Livello 0 (2019), realizzata per la prima volta presso la sede della Fondazione Rossini in Briosco, il visitatore è trascinato entro i confini di una metafora del vivere contemporaneo, sviluppata sempre attorno al rapporto dialettico tra due elementi contrastanti, opposti e in costante conflitto.
Un piano evanescente di luce rossa fende lo spazio, tagliandolo orizzontalmente in due sezioni. Qui che si registra il capovolgimento del ruolo dell’osservatore, il quale, attraversato dal raggio all’altezza del ventre, prende parte alla scena. Tale luce lo spezza, lo divide, lo rende presenza mutilata fra l’alto e il basso, tra ciò che è visibile e ciò che è celato.
Al di sotto del piano rosso, alcuni affamati si avvicendano per cercare cibo, inscenando una struggente lotta per la sopravvivenza. All’osservatore, posto apparentemente in una posizione sopraelevata, si concede una illusoria posizione egemonica: egli guarda, ma non domina, separato da un confine che è solo apparenza, mera illusione scenica. Un tema che ritorna sotto altra veste in Déjà Vu (2008), dove sei coppie di gemelli omozigoti si fronteggiano in uno speculare tiro alla fune. Un tratto rosso, al centro della fune, funge da emblema del limite, ma questo si infrange di continuo, messo in crisi dal moto incessante e caotico del conflitto.

Terzo Atto: confine autoriale
Il percorso espositivo procede con il terzo atto, incentrato sulla meditazione attorno al concetto di confine autoriale, un filo conduttore che regge la ricerca artistica di Filippo Berta.
Una selezione di sei video delle sue performance collettive, partecipative e delegate. In queste, ideatore e performer, pubblico e partecipanti, osservato e osservatore si intrecciano senza soluzione di continuità, si sostituiscono e si annodano costruendo una tessitura e una ragnatela di relazioni. Di nuovo uno scambio di ruoli, una sovrapposizione tra osservatore e artista, il quale abdica al governo assoluto sull’opera, limitandosi a forgiare un’intenzione iniziale e lasciando che essa si compia al di là della sua volontà, diventando egli stesso semplice testimone.
In Allumettes (2012) alcuni individui ammassati accendono un fiammifero dopo l’altro, creando con i propri corpi un quadrato. Tale armonia è rotta dall’allontanamento di alcuni di essi dopo aver esaurito i fiammiferi, abbandono che produce il progressivo dissolvimento della forma geometrica perfetta. La precarietà dell’armonia tra le figure umane e il successivo fallimento segnalano la fragilità della perfezione, la cui fallacia è segnalata dall’ultimo fiammifero che si spegne.
La necessità della cooperazione si ripropone in Concert of Soloist (2012) dove un gruppo di uomini seduti attorno ad un tavolo bevono del brodo e ognuno di essi enfatizza
ogni sorso succhiando con forza dal cucchiaio, producendo un rumore invadente e fastidioso.
Ciascun individuo manifesta la sua presenza durante l’atto di nutrirsi con un gorgoglio
crescente, ma si ritrova a essere inesorabilmente assorbito da un caotico rumoreggiare.
In questa sezione emerge il prevalere di una collettività uniformante sul tentativo di emergere del singolo nel teatro di una competizione disperata.

Ultimo atto: il confine esistenziale
L’ultimo atto celebra il confine esistenziale che si manifesta nella selezione di fotografie e due video, in cui l’indole umana riflessiva, intellettuale e meditativa emerge sotto elementi semiotici e fenomenologici in una ricerca interdisciplinare. Le fotografie nella prima parte della sala afferiscono ai video della sala precedente, come una serie di atti
finali che partono sempre da un disegno preparatorio in cui l’istantanea viene limitata a
riprodurre fedelmente l’idea iniziale.
I due video, invece, condensano due allegorie della condizione umana: l’incertezza causata dalla perdita delle coordinate di riferimento e la caducità dell’esistenza. In Come polvere nel vento (2024) vediamo una barca navigare in un deserto d’acqua, senza una meta precisa, come una bussola che ha perso il suo orientamento. I semi d’orzo – trasportati dalla barca – , vengono paragonati agli esseri umani: alcuni si perderanno, altri troveranno un luogo in cui germogliare. Come polvere trasportata dal vento, la nostra identità può rimanere sospesa, in attesa di un terreno fertile in cui manifestarsi. Berta riflette sull’identità come una condizione in divenire, una potenzialità non ancora definita.

Liminal: fotogallery della mostra di Filippo Berta al WU Space Contemporary Art



























