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La mostra di John Armleder a Ginevra è come un mercatino delle feste
Arte contemporanea
Nella sede distaccata del MAMCO di Ginevra, due stanze raccolte – che ricordano l’intimità di un appartamento arredato con cura – sono colme di ogni “ben di Dio”, frutto della poliedrica produzione di John Armleder e di un’accurata messa in scena dello spazio. Dalle etichette delle bottiglie di vino al servizio di tazzine Illy, dai libri disposti nelle minimali librerie Ikea alle magliette e felpe sistemate su un porta-attaccapanni da grande magazzino; dai colori a matita con i nomi degli artisti stampati sopra e sul foglio del contenitore – The 30 Americans Crayon Edition -, fino alle lampade e ai mobili di design – sedie, poltrone, un divanetto – tutto concorre a definire un ambiente densamente abitato da oggetti.
L’involucro è curato in ogni dettaglio: le pareti sono dipinte con strisce diagonali, declinate in un unico colore che caratterizza ciascuna stanza, mentre il pavimento è ricoperto da tappeti disegnati dall’artista. Lo spazio vive così a cavallo tra diverse tipologie d’uso: appartamento, negozio di moda o di design, grande magazzino di suppellettili e arredi elementari e minimali. Un luogo, insomma, in cui generi differenti di prodotti convivono democraticamente e indifferentemente.

Gli oggetti proclamano con gusto e discrezione la loro essenza di merce, pronti allo scambio all’interno della cornice festiva che accompagna l’acquisto. Lo spettatore, trasformato in consumatore, viene immerso in un’atmosfera natalizia, cullato dalle note di musiche hawaiane dedicate al Natale, che intrecciano ritualità e melodie sdolcinate ormai internazionali, filtrate attraverso variazioni californiane ottocentesche fino ad approdare alle elaborazioni moderne giapponesi di questi ritmi ancestrali.
Se però tutto si esaurisse in questo, non vi sarebbe alcuna differenza tra uno spazio commerciale e uno spazio d’arte, tra il commercio quotidiano e quello legato all’arte. E se è vero che lo statuto dell’arte come merce è stato ampiamente criticato, resta altrettanto innegabile che l’arte sia anche merce. Armleder non solo lo ammette ma lo dichiara apertamente, giocando e inscrivendosi con sottigliezza all’interno di questa ambiguità.

A uno sguardo più attento emerge tuttavia una struttura interna, un gioco armonico di corrispondenze. Uno dei segni ricorrenti della sua produzione è la macchia: compare sul fondo dei piatti appesi alle pareti, sulle magliette, sulle etichette dei vini; riappare persino sulla borsa argentata del merchandising del MAMCO. A metà tra l’immagine coordinata della “ditta” Armleder, un possibile logo e qualcos’altro ancora – come la macchia all’origine di un quadro, la prima pennellata – questo segno si carica di una valenza ambigua e generativa.
Durante l’inaugurazione, Armleder mi confida che questa macchia è debitrice di artisti come Francis Picabia e Larry Poons. A Picabia associo immediatamente i dipinti degli anni Cinquanta, con i bollini immersi in fondi scuri e materici, visti alla mostra Stop Painting della Fondazione Prada di Venezia nel 2021, nella sezione significativamente intitolata Vicino al niente (Next to Nothing). In quello stesso contesto era presente anche un’opera di Armleder, Untitled (1979–80): una pura cornice, completa di vetro, incastonata nella parete lateralmente e disposta in senso perpendicolare ad essa. Una negazione del desiderio del quadro di essere appeso, una condizione eccentrica che lo trasformava in un oggetto evanescente e instabile.

Di Larry Poons, invece, riaffiora alla memoria un articolo di Artforum del critico Barry Schwabsky, che racconta il contesto da cui nasce Creeble Creek (1962), il primo dipinto a puntini dell’artista. Il testo ricostruisce l’esperienza di Epitome, uno spazio-bar aperto qualche anno prima da Poons insieme ad alcuni amici, frequentato da scrittori della Beat Generation, artisti, critici e musicisti – la musica era stata, non a caso, la sua prima passione.
Armleder, infine, cita “la storia della macchia”. Non è chiaro se il riferimento sia al romanzo di Philip Roth e al valore simbolico della macchia come correlativo oggettivo dell’onta, della colpa e della sporcizia, fino alle sue implicazioni razziste. Ma il discorso può proseguire altrove. È piuttosto significativo il rimando allo spazio di Poons. Anche Armleder, durante gli anni degli esordi newyorkesi, apre nel 1973, insieme agli amici del gruppo omonimo, lo spazio Écart, che chiuderà alla fine del decennio. Un luogo dedicato a esposizioni temporanee e dotato anche di una libreria: rivelatori dei suoi gusti onnivori sono i titoli presenti nel “mercatino”, che spaziano da Beato Angelico a Vito Acconci, da Donald Judd a James Lee Byars, fino a Paul Thek e Rashid Johnson.

Animatore dell’ambiente artistico ginevrino, in pieno fermento negli anni Settanta, Armleder organizza mostre fondamentali come Peinture Abstraite (1984), con artisti quali Fontana, LeWitt, Mangold, Merz e Ryman, che propone una concezione allargata, concettuale, minimalista e analitica della pittura. Seguirà Peinture (1993), con Baudevin, Stucki e Mosset, che ribadisce, con un’attenzione più locale, la stessa impostazione, distante dal neo-espressionismo tedesco e coerentemente orientata verso l’astrazione e il concettuale.
Forse, adottando un’interpretazione estetica allargata, fondata sull’idea di equilibrio e di rapporto dialettico tra i diversi elementi di un ambiente totale – come quello del mercatino natalizio ginevrino del 2025 – l’intervento di John Armleder può essere letto come un’opera pittorica estesa, che ingloba oggetti, riferimenti musicali e culturali, memorie storiche e politiche, e pratiche artistiche, configurandosi come una summa dell’intera produzione dell’artista.
La mostra sarà visitabile fino al 7 febbraio 2026.












