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La natura dello spazio logico, Giulia Marchi – LABS Gallery
Arte contemporanea
Continua fino al prossimo 31 gennaio La natura dello spazio logico, la mostra personale di Giulia Marchi (Rimini, 1976) alla LABS Gallery di Bologna, evento che si inserisce senza dubbio tra i più interessanti tra quelli proposti nel capoluogo emiliano per la riapertura della nuova stagione espositiva. Marchi presenta per l’occasione un lavoro intimo e introspettivo in cui pittura, fotografia e scultura si mescolano inscindibilmente proponendo una riflessione sul senso dello spazio, inteso come luogo fisico e messo in rapporto alla nostra esperienza percettiva; un’indagine, questa, che l’artista porta avanti nel confronto continuo con il pensiero del filosofo e architetto austriaco Ludwig Wittgenstein. Un sentire comune tra i due che è messo in evidenza dalla curatrice della mostra, Angela Madesani, che nel suo contributo critico sottolinea come “per Wittgenstein il lavoro filosofico, come spesso quello progettuale architettonico, è un lavoro su se stessi, sul proprio entrare nelle cose, nei problemi, nei fenomeni ma anche sul proprio punto di vista. Un concetto che interessa profondamente Giulia Marchi e che, mutatis mutandis, trova un chiaro riferimento nei lavori che andiamo qui a presentare”.
L’opera che da titolo alla mostra e che guida tutto il percorso di visita è una serie di sei stampe analogiche da lastra, realizzate con il banco ottico, che riprendono in successione alcuni metodi di misurazione legati alla prassi dell’artista, oggetti fotografati nel suo studio in una mise en scène dal richiamo ancestrale. La prima di esse, una sottile asta, si rivela come l’omaggio al più antico strumento di misurazione nella tradizione occidentale non legato a una precisa corrispondenza corporea, la lancia realizzata da Ulisse per accecare Polifemo. Lo spazio fisico dell’atelier e quello del pensiero legato all’atto creativo sono analizzati attraverso questa teoria di oggetti che guidano l’artista alla scoperta del mondo che la circonda. Da questo incipit il rimando si trasferisce alle due sculture in marmo poste sul pavimento al centro della sala, i due sottili cunei che ricordano gli aghi di una bussola, ideale strumento di guida attraverso lo spazio espositivo: l’osservatore è condotto in un rimando di segni che tracciano un viaggio che è metafora della nostra stessa esistenza, di quel nostro continuo muoverci nel tempo e nello spazio che non sapremo mai se è indotto dal nostro libero arbitrio o se segue un disegno preciso e prestabilito.
Di questo dubbio, resta espressione emblematica il concetto di labirinto che Giulia Marchi indaga aprendo le arti visive al dialogo con l’architettura, la letteratura e le nuove tecnologie. Tre percorsi sono messi a confronto tra loro, espressioni di momenti storici e realtà geografiche diverse: Il Labirinto di Cnosso, a Creta; quello di San Giorgio Maggiore, a Venezia; e infine il più recente dei tre, quello di Dunure, in Scozia. L’unico mezzo per uscire dalla costrizione del cammino guidato, come ci suggerisce l’artista, è l’errore. Il celebre esametro virgiliano “Ibant obscuri sola sub nocte per umbram” (Andavamo senza luce nella notte solitaria, attraverso la tenebra), è riportato da Marchi inciso sulle lastre di marmo di Carrara nella variante del classico errore di Jorge Luis Borges è un inno allo sbaglio come unica fonte di verità; un concetto che ritorna in quel perentorio “NUL”, sempre scolpito nel marmo, che è una citazione di Google Map, il termine che indica l’assenza di coordinate valide e che, messo accanto all’errore borgesiano basato sulla caducità della memoria umana, evidenzia l’inattendibilità anche della tecnologia della cui perfezione ci illudiamo utilizzando quotidianamente.