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La violenza sulle donne: (ancora) una delle violazioni dei diritti umani più diffuse e meno riconosciute
Arte contemporanea
Nan un mese dopo essere stata picchiata. Autobiografica e collettiva, al contempo, è l’opera da cui muove questa personale riflessione per immagini nella giornata odierna, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dalle Nazioni Unite per ricordare che la violenza di genere continua a rappresentare una delle violazioni dei diritti umani più diffuse e meno riconosciute. Nan è Nan Goldin: è il 1984 e l’artista, un mese dopo essere stata picchiata dal suo fidanzato, con il volto ancora visibilmente tumefatto, decide di mostrarsi. Il suo autortiratto, iconico, potente, diventa un simbolo universale della violenza sulle donne.
Nan poteva essere chiunque: poteva essere una sua amica, una nostra amica, una parente, sua e nostra, potevamo essere noi, donne. Come quelle 30 assassinate in Italia (il dato si riferiva a giugno 2021) che Regina José Galindo ha ricordato in El canto se hizo grito (Il canto si è fatto grido). In quella performance, commissionata e prodotta da Prometeo Gallery, Galindo affermò che «Per una ragione o per un’altra nel corso della storia, diverse culture hanno reagito collettivamente, in modo arbitrario e accusatorio, dinanzi agli altri individui, di solito per timore. Per paura, sono stati repressi, attaccati, puniti e persino uccisi, presunti colpevoli. Durante l’inquisizione, la caccia alle streghe è stato un fenomeno in Europa centrale che ha perseguitato le donne con false accuse; un semplice dubbio era già motivo di condanna».

30 donne erano anche quelle uccise nelle Isole Baleari, prima che iniziasse un conteggio ufficiale (Nuestra mayor venganza es estar vivas, 2021), 34 invece quelle uccise in Spagna dall’1 gennaio a settembre 2020 (Detras de la ventana, 2020). Regina è sicuramente una delle artiste contemporanee che molto ha cercato di destare le nostre coscienze su questa brutale violazione che è piaga e piega della società moderna: già nel 1999, legata a un letto verticale, fece proiettare sul suo corpo nudo notizie e immagini di abusi e violenze sulle donne in Guatemala (El dolor en un pañuelo).
Anche Ana Mendieta, come Galindo, usò, negli anni ’70, il proprio corpo per reagire all’idea della violenza contro le donne. Era precisamente il 1973, l’artista era ancora studentessa quando lo stupro e l’omicidio di una donna nel campus universitario la scossero e la spaventarono così profondamente da cercare di reagire, senza essere teorica, a una situazione simile, a una così dolorosa questione di genere.
Nella dimensione della risposta, della reazione, anche Doris Salcedo ha concepito la sua opera A Flor de Piel mentre stava facendo ricerche sugli eventi che hanno coinvolto un’infermiera torturata a morte in Colombia e il cui corpo smembrato non è mai stato ritrovato. Realizzata cucendo insieme centinaia di petali di rosa in un delicato sudario che ondeggia dolcemente sul pavimento, di quest’azione l’artista spiegava: «Cucire i petali è molto importante perché è stato un modo per riunire tutte queste parti. La violenza distrugge tutto. La tortura distrugge i corpi. L’idea è quella di riunirli, unirli e recuperare la forza che avevano».


Della natura distruttiva della violenza, fisica ma anche verbale, psicologica, invisibile – come quella che Silvia Giambrone svela con le sue opere – è iconico esempio anche Irresistible, una scultura di Sue Williams del 1993, in plastica, raffigurante una donna tumefatta, coperta di lividi e di scritte come come You dumb bitch, Slut e Look what you made me do. Williams, che ha dichiarato di aver vissuto personalmente relazioni violente e tossiche, ha esposto con quest’opera la brutalità della violenza in modo onesto e diretto.
Come diretto e sicuramente crudo è il carattere di Rhythm 0, storica performance con cui Marina Abramović dimostrò come la donna può essere oggettivata e soggetta ad abusi e violenze. «All’inizio – ricorda Abramović in un dialogo con Glenn Lowry – il pubblico stava davvero giocando con me. In seguito è diventato sempre più aggressivo. Sono state sei ore di vero orrore. Mi tagliavano i vestiti. Mi tagliavano con un coltello, vicino al collo, e bevevano il mio sangue, poi mettevano un cerotto sulla ferita. Mi portavano in giro, mezza nuda, mi mettevano sul tavolo e mi infilavano il coltello tra le gambe nel legno. E qualcuno ha persino caricato la pistola, me l’ha messa in mano e ha controllato se premevo il grilletto, mettendo la sua mano contro la mia, per vedere se avrei opposto resistenza. Ma ricordo che, dopo sei ore, quando il gallerista è venuto a dire che l’opera era finita, ho iniziato a essere me stessa e ho cominciato a camminare tra il pubblico nuda e insanguinata, con le lacrime agli occhi, e tutti sono scappati, letteralmente corsi fuori dalla porta».


Perché si può fare di tutto a una donna? Perché chi si macchia, chi si rende complice, scappa? Non si guarda a Il male inflitto alle donne, per dirlo con il titolo di un’opera di Giosetta Fioroni (2008), un’installazione a parete di grandi dimensioni, creata con ceramica e smalti policromi, composta da 66 riquadri, simili a lapidi, che riportano i nomi delle donne morte per femminicidio nel 2006. Fioroni offre una memoria visiva delle vittime e una testimonianza del fenomeno.
Un fenomeno che va denunciato, anche quando sembra invisibile: abbiamo fatto poco fa il nome di Silvia Giambrone, per esempio. Nella sua opera video Domestication, due attori, un uomo e una donna, che hanno introiettato il paradigma della violenza all’interno della loro relazione, si muovono in maniera evocativa e poetica in un interno domestico. I due protagonisti sono sempre ripresi da soli in quell’ambiente comune, come se fossero uno la proiezione o il ricordo dell’altro, e gli oggetti che entrambi utilizzano diventano i segni tangibili della loro effettiva presenza. Oggetti di uso comune che però, se guardati attraverso la lente deformante della violenza, diventano potenzialmente pericolosi e sinistri, oggetti che diventano quindi sia i testimoni che gli strumenti di una violenza simbolica.


Ognuna di loro, di queste donne, artiste – insieme a tantissime altre, come Teresa Margolles o Kiki Smith con la sua Rapture, o Barbara Kruger, per fare ancora qualche nome – offre prospettive diverse: abbiamo attraversato la performance, anche estrema, la denuncia, politica o sociale, l’indagine della violenza domestica e psicologica.
Colpisce, tristemente, l’ultima indagine Istat in tema di sicurezza delle donne, perché restituisce una realtà dolorosissima: quasi un terzo delle italiane tra i 16 e i 75 anni – ovvero 6 M I L I O N I E 4 0 0 M I L A donne – ha subìto almeno una forma di violenza fisica o sessuale nel corso della vita. Di questo rapporto preoccupa il significativo aumento subito dalle più giovani e travolge il dato secondo cui i partner, attuali ed ex, sono responsabili della quota più elevata di tutte le forme di violenza fisica rilevate, con quote superiori al 50% (fatta eccezione per le minacce), e di alcuni tipi di violenza sessuale come lo stupro, nonché i rapporti sessuali non desiderati ma subiti per paura delle conseguenze.
E questo lo chiami amore? Me lo chiedo, lo chiedo a voi. E non è una domanda retorica, non vuole esserlo. A proposito di uomini, voglio chiudere con un lavoro che si intitola Il popolo delle donne. Il soggetto è una donna, Marina Valcarenghi, giornalista e attivista politica negli anni Sessanta e Settanta, nonché psicoanalista nelle carceri, presso i reparti dedicati alla violenza sulle donne. Chi l’ha realizzato è Yuri Ancarani: è lui – e questo è significativo e valga come esempio – che ha costruito il film sul monologo in cui la protagonista racconta come l’insicurezza femminile sopravviva, nonostante la progressiva conquista di autonomia.
Perché?
Rispondere – o rispondersi – è necessario. Ed è compito nostro, oggi e ogni giorno.













