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L’impossibilità della scultura è la sua bellezza: intervista all’artista Giuseppe Lo Cascio
Arte contemporanea
Spesso, costruire mondi si scontra con la necessità di smontarne i presupposti. Giuseppe Lo Cascio (1997, Palermo), appartiene a quel genere di artisti per cui la scultura è un monito al costante ed eterno interrogarsi – dell’artista, ma anche dello spettatore – sul senso stesso della sua bellezza. La sua è una scultura che non afferma, ma interroga; ricerca quelle che sono le più profonde origini dell’ossatura di tutte le cose. Nella sua essenzialità, la scultura è uno spazio per la riflessione sul senso stesso, sull’urgenza, del fare-scultura.

Nel white cube di Area Treviglio, spazio indipendente nella bassa provincia bergamasca, Lo Cascio presenta, fino al 28 novembre, due nuclei di opere, Tools e Cumuli (ovvero il privilegio di farli identici), in cui indaga una tensione – per me, così affascinante – tra forma e fallimento, tra la possibilità e l’impossibilità di costruire qualcosa che resti e che sopravviva all’inesorabile peso della distruzione che il tempo trascina con sé. Strutture effimere, macchinari ingegnosi, le opere di Lo Cascio abitano il terreno dell’ambiguità, dove non solo non esiste più una logica prettamente funzionale, ma in cui le opere perdono il senso della loro stessa anima immaginifica per diventare simulacri di loro stesse.

All’interno di Fondazione Elpis di Milano, fino all’1 febbraio 2026, nell’ambito di A te non resta che abitare questo desiderio, a cura di Sofia Schubert, vengono presentate due opere, insieme a quelle degli altri artisti del primo ciclo di residenze Atelier Elpis, Schedario N (2025) e Tool #4 Nigredo o M è sempre quella perché non è mai la stessa (2025), perfette espressioni dell’idea – quasi una fascinazione ancestrale – di una pratica accumulatrice e anarchivistica. In questi lavori, emerge una chiusura definitiva, letteralmente uno spazio protetto, a cui non è possibile accedere. Nel ciclo di residenze, con Ornella Cardillo, Natalya Marconini Falconer e Stella Rochetich, gli artisti hanno vissuto un periodo in cui potersi focalizzare su quel panorama emotivo di una geografia (quella della città di Milano) in costante movimento nello spazio e nel tempo.
La materia – ferro, gomma, plastilina – si organizza in un linguaggio sospeso tra memoria e meccanica, tra rituale e progetto. È come se ogni opera nascesse già in bilico, consapevole del proprio fallimento poiché l’impossibilità vive sempre dall’inizio. E proprio in questa impossibilità, lucidamente accettata, si annida la forza del suo lavoro. Lo Cascio trasforma la scultura in un atto di pensiero, un gesto che tenta di trattenere la gravità delle cose prima che scompaiano. Un esercizio di attenzione, di ostinazione, forse di fede: quella di credere che anche ciò che non funziona possa ancora produrre senso.

Ricordo la prima opera che hai esposto nella collettiva da Area Treviglio (gli Schedari), in cui hai sondato un concetto per me estremamente interessante legato alla scultura in sé, ossia la sua impossibilità. Che è sia formale, spesso strutturale, che concettuale: arrivare al senso, epurando l’opera del frastuono iconografico che la circonda. Che cos’è questa impossibilità nel tuo lavoro?
«Sono felice che un mio lavoro possa innescare una riflessione del genere, anche se sondare un concetto attraverso una pratica non credo mi appartenga più di tanto. Vorrei rimanere fuori da una retorica approssimativa sulla logica delle funzioni e dell’oggetto d’arte che salva il mondo.
Certamente, penso che l’impossibilità, come paradigma del fare arte o dei processi creativi, viva sempre all’inizio, nel momento preciso in cui si sceglie un oggetto o la sua traccia e ci si appassiona alla disfunzione peggiore. Il contemporaneo, nelle lezioni visive che continua a dare, credo permetta enormi strumenti attraverso i quali concretizzare gli oggetti; ecco, ho usato il verbo concretizzare, penso di essere già lontano dall’impossibile.
Direi che negli oggetti cerco una certa insolita gravità, più che l’impossibile; è un dato di fatto che questi esistono, si manifestano ed occupano dei ruoli nelle dinamiche umane».


La tua riflessione sulla scultura non si concentra solo sul senso stesso della forma, ma anche su un concetto basilare che è la ricerca dello spazio e la sua permanenza nel tempo. Pittura e scultura, nella loro forma originaria, si configurano infatti come una riflessione sullo spazio e sul tempo. In che modo la tua poetica esplora queste due dimensioni?
«Direi che alla frenetica richiesta di spazio corrisponde pochissima necessità di permanenza nel tempo. I castelli di carta potrebbero essere la metafora migliore che utilizzerei. Cioè, sono castelli, ma sono pur sempre di carta: la loro forma sparisce veramente con poco. Se ci pensi, allora, tutto si riduce a un senso che acquisisce il vuoto.
Lo intendo proprio come quella mancanza di spazio e tempo che articola le forme, permettendo ritmo e contemporaneamente riconoscibilità nell’assenza. La memoria non vede l’ora di trovarsi contraddetta nelle sue sensazioni di sicurezza, quasi fosse una sorta di atto di autocommiserazione occidentale».
Nella tua personale da Area Treviglio hai dimostrato quanto la tua poetica derivi da un’urgenza che attraversa completamente la storia dell’arte. Quei cumuli di terra appaiono un’eco ad una tradizione specifica – dai Ready Made (rettificati) ai Land Artists ma anche alle machines di Tinguely – in cui si inserisce una componente intima, profondamente interiore. Qual è la tua urgenza?
«Intendo urgenza come la intenderebbe chiunque in medicina: una situazione che richiede un intervento rapido. In questi termini, insistere su una risposta del genere finirebbe per diventare un atto farmaceutico e precario, utile solo ad “accrescere irrimediabilmente il mio ego in maniera vertiginosa”, per fare una citazione cinematografica alla Sorrentino.
La verità è che non percepisco alcuna urgenza negli atti di traduzione che metto in pratica attraverso il mio lavoro. È piuttosto una curiosità che si soddisfa facilmente con azioni dai movimenti doppi: l’attrazione compensa la repulsione, il gioco bilancia lo scherzo, l’insulso dialoga con il monumentale, eccetera.
Visto che hai citato i cumuli di polvere di pneumatici, potrei tentare di ricondurre tutto forse a una necessità di prospettiva, o magari a una tensione verso il paesaggio, verso un possibile scenario che poi realizzo con le forme e i materiali che appartengono al mio vissuto. Forse a una specie di centratura personale. Ma, in realtà, sto accettando l’idea di convivere con numerosi punti di vista e altrettanti punti di fuga».


Le tue sono Machines a penser, per citare la mostra curata da Roelstraete nella sede veneziana di Fondazione Prada e ricollegarci alla domanda sopra. Questo perché contengono in sé continue scorribande tra il senso e la forma, privata ideologicamente di una sua funzione in profonda antitesi con ciò che è oggi una certa ottica funzionale. Penso anche al concetto di replicabilità e riproducibilità che hai suggerito nei titoli stessi delle opere: l’identico, che non è l’uguale, o lo strumento che è la funzione per cui ciò che è può essere riprodotto. Esiste, all’interno della mostra, un’escamotage narrativo?
«Parli di una mostra di cui ho scoperto l’esistenza troppo tardi. Ancora non abitavo a Venezia in quel periodo e quest’ultima sembrava essere solo la meta di quel tripudio felice di eventi culturali che è la biennale. Di quell’esposizione ho trovato interessante la condizione di fuga e ritiro che è stata la chiave di produzione delle opere esposte.
Ultimamente sto approdando a questo tema grazie a un’intervista di Thierry de Cordier che mi ha portato a un libro sull’immaginario del pensare. È un tipo di iconografia non troppo inflazionata, nella quale paradossalmente si trova rappresentata la condizione prima del processo creativo, quella che appartiene alla dimensione fisica e spirituale dello studio e, intendiamoci, non intendo soltanto lo studio di chi fa arte.
In generale ho parecchia difficoltà a trovare escamotage narrativi, è una tensione che sento sempre. Soprattutto in allestimento si manifesta nel modo più contraddittorio e contrastante; in fondo si congelano degli oggetti, delle forme o dei concetti in un atto: tutta la narrazione sta prima e dopo e, soprattutto, non è sempre manovrabile».
Quale è il senso del fare scultura, oggi? Quali saranno i suoi risvolti?
«Nelle interviste, se si può, a una delle domande si risponde sempre con un’altra domanda e senza dubbio questa vince nel suo essere pretenziosa. Alice, una mia cara amica, mi disse una volta che questa tecnica appartiene molto a chi ha una fede cristiana, ma non saprei. È tanto interessante congelare le cose quanto non limitarne le possibilità.
Studiando antropologia in accademia e in particolare la sezione dedicata all’arte e alla funzione dei suoi oggetti, ho realizzato personalmente che il senso risiede nell’inserire essi dentro rituali che cambiano continuamente forma, spazi e agenti, rimanendo pur sempre rituali. Evidentemente anche la scultura continua a occupare un ruolo in queste dinamiche, ma siccome è davvero difficile analizzare il presente dal presente, allora proverei ad andare indietro. È proprio tramite questo pensiero che sono riuscito a motivare tante scelte nelle opere che ho realizzato e nelle cose che mi appassionano.
Perciò la mia risposta è: qual è stato il senso prima per farla?».














