09 marzo 2022

Lo stato del museo: intervista a Francesco Stocchi

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Il museo, oltre i confini e i ruoli: parla Francesco Stocchi, curatore di arte moderna e contemporanea al Boijmans Van Beuningen di Rotterdam

Art Depot Boijmans Van Beuningen, Rotterdam

I musei, le istituzioni culturali internazionali e italiane, l’arte contemporanea nel post-pandemia. Dopo il passaggio del Rubicone dei lockdown, cosa cambia tra prospettive di sviluppo e continuità? Per cercare di fornire parametri non banali abbiamo intervistato (prima dello scoppio della guerra in Ucraina, n.d.a.) Francesco Stocchi, attualmente curatore di arte moderna e contemporanea al Museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam.

Che cos’è museo per te?
«Il custode della nostra eredità culturale che è qualcosa di vivo, dinamico. Quindi custode del fuoco, non culto delle ceneri».

A tuo avviso la pandemia come ha cambiato la definizione di museo? 
«La pandemia ha cambiato tante cose, inclusi i musei ma questi non in maniera significativa. Una loro mutazione era già in atto prima del 2020».

Francesco Stocchi

Quanto la pandemia che stiamo vivendo potrebbe essere un’occasione per progredire per i musei? Su quali fronti a tuo avviso?
«Nell’ascolto verso il proprio pubblico, da non intendere come massa come somma di singoli individui».

Come immagini il Museo del futuro? Quanto siamo lontani da realizzare questa visione?
«Non vedo il futuro come una visione statica dove arrivare. È qualcosa in costante divenire quindi per certi aspetti già ci siamo nel futuro».

Come si colloca in questo ambito la costruzione del DEPOT Boijmans Van Beuningen a Rotterdam?
«Nasce innanzitutto dalla necessità di custodire la collezione che per più di un decennio non aveva una vera e propria casa. Abbiamo iniziato a lavorarci nel 2012, chiedendoci come sarebbe potuto essere un edifico pensato intorno agli oggetti per provare a ridefinire il rapporto che i visitatori possano avere con le opere d’arte. Fino a ieri, eravamo abituati a fruire un museo come la sala di un ristorante dove vengono serviti, e consumati dei piatti pronti. Il DEPOT invece è come entrare in cucina, osservare i cuochi e vedere tutti gli ingredienti a disposizione».

Art Depot Boijmans Van Beuningen, Rotterdam

Privati della presenza del pubblico fisico, i musei si sono dovuti confrontare con il digitale, il rapporto con la simultaneità e la riproducibilità tecnica del contenuto culturale. Quali sono i pro e i contro secondo te?
«Mentre i progressi nella tecnologia che causano sviluppi nei media visivi hanno influenzato negativamente i poteri cognitivi degli esseri umani, hanno anche portato a progressi e successi nel campo della ricerca scientifica. Trovo che l’avanzamento della tecnologia visiva e il suo conseguente danno alla capacità di concentrazione sia un male necessario. Poi, sono convinto che l’essere umano si adatterà e migliorerà».

Nel corso della tua carriera internazionale ti sei confrontato con direttori e curatori giovani. Cosa pensi li differenzi dalle generazioni precedenti?
«È cambiato proprio il modo di vedere, e di conseguenza anche quello di pensare. Per entrare nello specifico, ci vorrebbe una giornata intera di dibattiti dedicati all’argomento».

Una visione della storia dell’arte che è giunta al suo capolinea. Quella storia canonica dell’arte che a un certo punto passava molto per l’Europa e in particolare pe l’Italia, è totalmente in crisi a livello mondiale perché, con la digitalizzazione e la globalizzazione, ci si è resi conto delle incredibili civiltà di altri secoli, dalla Cina all’America Latina. Cambiando la definizione di Arte non è detto, per esempio, che la prospettiva rinascimentale sia più importante della visione piatta degli indigeni d’Australia. Sei d’accordo? In quale modo i musei dovrebbero dare il loro contributo a questa riscrittura della storia dell’arte?
«I musei stanno già dando il loro contributo. In modo un po’ deterministico e meno lineare rispetto alla loro identità, quindi rispetto al loro passato, ma stanno proponendo una riscrittura della storia. Non penso che la visione degli indigeni australiani sia più o meno importante di quella rinascimentale. È sicuramente diversa e questa è già una grande ricchezza e la si coglie se non si ragione in termini verticali. Provengo da studi antropologici, mi sono quindi presto interessato a questa pluralità di nozioni. É abbastanza chiaro che ci sono diverse storie della modernità, diverse modernità e diverse storie che si possono scrivere della modernità, dell’arte e della cultura. Ed è quanto sta accadendo, ma attenzione a facili confronti. Nelle culture indigene africane, per esempio, il termine “arte” non esiste proprio ma è qualcosa inteso in maniera dinamica. Una trasformazione in divenire legata tanto all’uso quanto al contesto. Ho affrontato proprio questa problematica nella mostra “Pascali Sciamano” (2017) presso la Fondazione Carriero a Milano».

Il museo è oggi finalmente concepito come luogo attivo e imprescindibile alla creazione del benessere e della cura alla salute che, come afferma l’OMS, non è più soltanto il non aver contratto una malattia fisica. È quindi necessario promuovere più strette relazioni tra musei e istituzioni sanitarie del territorio per politiche di accoglienza e partecipazione. Cosa ne pensi? Ci sono già al riguardo best practice da segnalare a tuo avviso?
«Durante la pandemia, la Spagna ha dichiarato che la cultura è un bene essenziale e inalienabile. I musei sono quindi rimasti sempre aperti. Mi sembra già un ottimo inizio rispetto alla percezione generale che si ha della cultura, che il fare utilitaristico odierno rubrica come inutile o per lo meno accessoria».

Dal tuo osservatorio internazionale, qual è lo stato di salute dei musei italiani? Cosa ti colpisce più favorevolmente e cosa più negativamente?
«Il problema è e rimane sempre la commistione con la politica. I recenti eventi continuano a ricordarci che siamo sempre nella logica da Prima Repubblica».

Pascali Sciamano, vista della mostra alla Fondazione Carriero, Milano

Cosa ne pensi della riforma Franceschini in relazione ai primi musei dotati di «autonomia speciale» e ai direttori «stranieri»?
«Un ottimo inizio necessario a uscire da una sorta di isolazionismo auto inflitto».

Non trovi che in molte istituzioni culturali nazionali e civiche in Italia dilaghi un eccesso di esterofilismo?
«Sì, ma in Italia come altrove».

Dal tuo punto di vista estero, qual è lo stato dell’arte della promozione internazionale dell’arte contemporanea italiana?
«Pressoché nullo, ma l’Italian Council e simili stanno muovendo qualcosa».

Come sono cambiati o stanno cambiando, i mestieri e le professionalità che ruotano attorno alla valorizzazione del nostro patrimonio culturale? Qual è il consiglio che daresti a un giovane che si avvicina a questo mondo da un punto di vista professionale?
«Se lo intendi come mestiere, cambia mestiere. Se fai un rapporto causa-effetto tra ore di lavoro e guadagno, pensa ad altro. Se invece lo intendi come parte integrante della tua vita, allora vai e non ti guardare indietro, tanto non hai scelta».

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