29 novembre 2025

«Nel 2026 unirò Shanghai e Venezia con un grande progetto». Intervista a Wallace Chan

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Designer di gioielli, incisore, scultore. L’artista cinese compie settant’anni e celebra la sua carriera attraverso un progetto monumentale che unisce due città d’acqua solo apparentemente agli antipodi. Ci ha raccontato la sua storia

wallace chan
Wallace Chan Vessels of Other Worlds. Work in progress

Settant’anni non si compiono tutti i giorni. E c’è chi decide di festeggiarli in grande. È il caso di Wallace Chan, originario di Hong Kong, tra gli artisti più noti della Cina ma non solo. Vessels of Other Worlds è il grande progetto trans-continentale – il più ambizioso della sua carriera – che nel 2026 unirà l’Estremo Oriente e Venezia. Dopo le sue partecipazioni veneziane (Titans nel 2021 e Totem nel 2022 al Fondaco Marcello), Chan torna nella Cappella di Santa Maria della Pietà a partire dall’8 maggio, in concomitanza della Biennale Arte, con tre nuove sculture ispirate agli Olea Sancta, i tre oli sacri della tradizione cattolica. Attorno, una costellazione di elementi sospesi in titanio introdurrà un movimento liquido volto a espandere lo spazio del sacro. Dal 18 luglio, invece, sarà la volta del Long Museum di Shanghai, enorme complesso fondato da due collezionisti privati che ospiterà sculture di scala monumentale.

wallace chan
Wallace Chan Vessels of Other Worlds. Work in progress

Wallace Chan, artista autodidatta, ha dedicato gran parte della sua vita a un fine lavoro artigianale legato alla gioielleria e all’incisione, prima di passare alla scultura. Caratterizzate dall’impiego di titanio, ferro, cemento, rame e acciaio inox, le sue opere – talvolta sospese, altre volte cinetiche, attraversabili e interattive – si ispirano al legame continuativo tra vita, crescita, morte che accompagna il tema dell’esistenza. Segnato da una esperienza monastica che all’inizio del Duemila lo ha visto ritirarsi dal mondo per sei mesi, la sua ricerca corre sul confine tra dimensione terrena e dimensione metafisica. Le due sedi, collegate da flussi video reciproci, diventeranno così camere comunicanti: due città unite dall’acqua e dalla capacità di riflettere, trasformare, moltiplicare le visioni. Le opere dell’artista cinese si fanno in questo senso contenitori di tempo, di memoria e di spirito: inviti a varcare un confine, per scoprire — forse — altri mondi ancora. Ce lo ha raccontato lo stesso Wallace Chan, che abbiamo incontrato tra il museo di Shanghai e il suo studio collocato poco fuori dalla città di Zhuhai, nella regione cinese del Guangdong.

Santa Maria della Pietà, Venezia ©Federico Sutera

La sua pratica unisce arte e artigianato. Come dialogano questi due aspetti della creazione, il gioiello e la scultura ambientale?

«L’unica differenza tra le due è che il luogo in cui vengono esposti i gioielli sono i corpi delle persone, mentre le sculture abitano lo spazio. Quando creo gioielli, ogni dettaglio è il frutto di un calcolo molto preciso. Gioielli e sculture di grandi dimensioni sono fortemente connessi».

Perché avviene questo?

«Perché gran parte della mia conoscenza della gioielleria si applica alla creazione delle grandi installazioni: nel modo in cui assemblo le parti, nella strutturazione della scultura. Anche se si tratta di una scala molto differente, la luce gioca un ruolo importante sia per i gioielli che per le sue sculture monumentali: come dialoga con gli intagli, come viene riflessa, come attraversa lo spazio».

C’è un riferimento spirituale che in qualche modo si insinua nella pratica artistica?

«Spesso sento che lo spirito si crea attraverso la meditazione. Ma sento anche il bisogno di comunicare costantemente con la materia, con la tecnologia, o con gli strumenti impiegati. Per la mia ricerca artistica faccio molte cose. Non solo pratiche spirituali, ma anche cercare di imparare nuove cose da diversi settori. Voglio sapere come funzionano le ultime tecnologie, i diversi strumenti, i macchinari e i materiali. E passo anche molto tempo a lavorare con i differenti materiali, a toccarli con mano per la mia ricerca artistica. Ma quando si tratta di spiritualità, quando parliamo dell’altro mondo, cosa sono gli altri mondi? In fin dei conti, si tratta di riscoprire se stessi, il significato della propria esistenza e di quella degli altri. Ecco, questa è l’idea. Non si tratta solo di meditare. La spiritualità si riflette in ogni esperienza, anche nel contatto con le tecnologie che entreranno nell’opera, perché è così che si comprende il mondo».

wallace chan
Wallace Chan, Vessels of Other Worlds, Long Museum, Birth Sculpture



Trovo curiosa questa espressione del “comunicare con la materia”. Può spiegarci meglio?

«La materia è assolutamente piena di spirito. Ha un suo DNA. Persino un ramo d’albero è pieno di energia infinita, così il metallo, il carbone, l’oro o il ferro, quando si scaldano o si raffreddano cambiano il proprio status. È importante comprenderne la personalità; è come prendersi cura di un bambino, capirlo lentamente, conoscerlo, usare diversi strumenti per nutrirlo, per farlo sentire a suo agio, per ottenere ciò che si vuole. Occorre trattare i materiali come figli, prendendosene cura, diventa una relazione. Non si può solamente imporre le proprie idee. È così che si comunica con i materiali. Non è propriamente un rituale, ma una osservazione costante. Si può osservare tutto e si troverà sempre qualcosa di nuovo, qualcosa che vale la pena notare».

La sua ricerca è improntata all’eternità della materia, qualcosa che lasci una traccia tangibile su questa Terra?

«Voglio lasciare qualcosa qui sulla Terra che possa durare nel tempo. Lasciare una memoria e allo stesso tempo creare per il futuro. Come lottare per l’eternità, la longevità, come lasciare un’eredità. Creare con l’idea che le opere mi sopravvivranno e saranno qui anche quando non ci sarò più».

Wallace Chan, Vessels of Other Worlds, Long Museum, Birth Sculpture

A proposito di eredità, perché ha scelto di esporre fuori dalla Cina arrivando fino a Venezia? C’è una storia biografica che la lega a questa città?

«Paradossalmente il mio primo incontro con Venezia è stato quando ero bambino a Hong Kong, dove c’era il Venice Café. Al tempo vivevo in povertà e non potevo permettermelo, ma quel luogo era diventato un oggetto del desiderio, un sogno. Quando sono diventato intagliatore e creavo gioielli sono andato a esporre a Basilea. E lì le persone mi parlavano di Venezia, perché dalla Svizzera era facile da raggiungere e in quel momento era in corso la Biennale».

Ed è andato?

«Sì, e sono rimasto stupito. La mia formazione era molto tradizionale e posso dire che quello con la Biennale è stato il mio primo incontro con l’arte contemporanea. Mi sembrava di essere semplicemente in un altro mondo. Ma avevo questo desiderio di imparare, e così sono tornato più e più volte, per molti anni, per oltre 30 anni. E finalmente, nel 2021, sentivo di averne abbastanza di pratiche, conoscenze, idee e competenze per essere all’altezza di esporre a Venezia. Ho organizzato la mostra Titans: a Dialogue between Materials, Space and Time a Fondaco Marcello. Ma è arrivato il COVID, e quell’anno Venezia è stata molto tranquilla, la mostra è stata visitata solo da italiani e veneziani».

Ne è rimasto deluso?

«A dire il vero ho fatto molta amicizia e ho trovato un senso di comunità, perché era l’unico cinese in città, e la gente ha cominciato a conoscermi. Sono tornato più e più volte, e ora Venezia è casa per me. Il vicesindaco mi ha persino conferito la cittadinanza onoraria».

Quindi possiamo dire che attraverso Venezia ha scoperto due realtà diverse, la Biennale con il contemporaneo e l’inizio della sua pratica artistica.

«Esatto, sì».

Long Museum, Shanghai

Secondo lei c’è un comune denominatore tra Venezia e Shanghai, città agli antipodi del mondo, entrambe affacciate sul mare?

«In realtà, penso che le persone esistano in una sola cultura, quella dell’arte. Una volta che entri all’interno di questa comunità è importante condividere il più possibile e connettersi con gli altri, semplicemente perché questo dà significato alla propria esistenza. Se coesistiamo sempre, di sicuro vale la pena collegare modi diversi. Voglio esporre prima a Venezia e Shanghai, per poi forse andare in altre città».

In realtà, anche il titolo della prossima Biennale d’Arte – In Minor Keys – si baserà sulla coesistenza della diversità e delle voci invisibili, del suono. E mi chiedevo se il titolo ispirerà anche questa mostra veneziana.

«In effetti, il suono agita costantemente le nostre vite. Il suono ha un’anima e anche produrre un’opera ha il suo suono, è un’eco costante. Quando guardi la scultura, puoi già trovare degli echi con il tema, le tonalità minori, i suoni sono sempre stati una fonte di ispirazione per me. Un suono lo produci stringendo i denti, o con la gola, o con le labbra? Sono sempre interessato a sapere come viene prodotto un suono specifico. E quindi forse questo fa già parte della sua scultura, la musica, le voci invisibili e i suoni che hai menzionato».

Tornando a Venezia, cosa si aspetta dalla prossima mostra e cosa porterà di nuovo rispetto alle precedenti?

«Il rapporto tra passato e futuro è ancora lo stesso di un tempo. È una connessione spirituale. Nascita, crescita e morte sono tutte collegate. È una questione di esistenza. Ogni mostra è in continuità con le precedenti. L’ultima mostra parlava di trascendenza e questa del 2026 sarà un veicolo verso altri mondi. Ci sono alcune riflessioni sulle mostre passate, ma l’obiettivo è sempre rivolto a spalancare nuove porte per il futuro».

 

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