15 marzo 2024

Nel duetto interrotto tra Giovanni Anselmo e le cose, un ricordo nel presente

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I giorni e le notti a Stromboli, le prime e le ultime mostre a Torino e a Napoli, la continuità tra vita e arte: un profilo di Giovanni Anselmo, a partire da una foto di Mussat Sartor

Paolo Mussat Sartor, Particolare di Giovanni Anselmo, Galleria Sperone Torino, 1970. Courtesy Archivio Paolo Mussat Sartor

All’inizio degli anni Ottanta, a Torino, quando gli artisti riconoscibili come stelle dell’Arte Povera gravitavano con successo nelle gallerie accreditate e rispondevano all’appello di mostre epocali sempre più in espansione nel mondo globale, è stata la dimestichezza di Paolo Mussat Sartor con Giovanni Anselmo a mediare il nostro incontro. Tra le immagini fotografiche del primo e le opere che si consumavano nella loro fragilità a contatto con il duro mondo minerale rinnovate da chi se ne assume cura, si stabiliva un legame funzionante di studiata complicità. Da documenti per fermare il tempo con lo scatto giusto erano divenute testimonianze iconiche di valore assoluto. Di pari passo al consolidarsi tra i rispettivi autori di un’amicizia fraterna irrinunciabile.

Mancando l’urgenza di progetti critica immediati nelle frequentazioni private di Giovanni Anselmo, facevo tesoro di dettagli in cui la poetica sembrava coincidere con la semplice normalità dell’esistenza. Quella esteriore, un volto scolpito a zigomi alti, gli occhi pungenti a mandorla, il corpo asciutto, che depistavano verso l’esotismo zigano.  Con uno scherzo malevolo tra personalità artistiche esordienti, lui autodidatta con un passato di grafico per una fabbrica di vermouth, era stato apparentato dalla fisionomia al bandito Cavallero che a fine anni Sessanta imperversava in provincia.

Un pacato filo di voce misurava la schietta austerità del carattere inconfondibile dell’artista. In una foto di Mussat Sartor divenuta celebre è ritratto dopo l’allestimento di Senza titolo (1969) nella collettiva a Bologna del 1970. Lo sguardo in su coglie l’emozione mentre osserva l’installazione delle lastre di granito sospese incombenti dalla parete del Museo Civico come per uno spostamento tellurico. Alla sensazione insperata di aver vinto la gravità si aggiunge l’espressione dell’artista che mirando in alto riconosce altre forze universali invisibili.

Paolo Mussat Sartor, Giovanni Anselmo con la sua opera “Senza titolo” nel 1970

Anselmo avrebbe trovato modo di orientarsi a perfezione tra gli elementi primigeni del creato nella percezione dell’infinito, l’individuazione di campi magnetici, la direzione stabile dei punti cardinali, della luce che fissa i particolari delle cose. Nella resa fisica dell’energia naturale tra spinte contrapposte si equilibrano l’altissima povertà dei materiali e regole di armonia ascetica.

Alla spettatrice occasionale degli svaghi all’aperto il fine settimana, i tiri al pallone a tre, quattro giocatori improvvisati sui prati dei borghi nella campagna limitrofa alla città, apparivano come la partita mimata senza avversario nel finale di Blow up di Antonioni.  In un agosto clemente, la casa claustrale a Stromboli, oltre la fascia delle limonaie contro il nero del vulcano, già verso il mare, divenne condivisione di quotidianità. Nei pressi, una colonia torinese rappresentativa, Laura Levi e figlia, i Tucci Russo. E nel piccolo giardino l’intesa segreta ecologista con una serpe lasciata indisturbata in fondo al pozzo.

Assieme alla moglie Alda faceva vita di mare con lo spirito di chi aveva consuetudine con la montagna. Quella speciale, lo Stromboli, aveva segnato in un’alba del lontano 1965, come il Vesuvio paradigma per altri di caos creativo, l’iniziazione all’arte a contatto con una visione cosmocentrica. Di notte il vulcano imprevedibile attendeva di essere affrontato fino in cima per compensare la fatica con la sua performance infernale assordante.

Mentre la cenere dal cono attivo lassù scendeva come una benedizione nei piatti a tavola, la sequenza del lavaggio prevedeva la soddisfazione di Giovanni nel cigolio dello sfregamento della ceramica contro la spugna. Tornava in mente il movimento semplice su altra scala di Torsione (1968) con il panno di fustagno attorcigliato da una barra di ferro.

Prima che scendesse la sera ideale per le gite a pesca, l’acqua antistante la Sciara del fuoco si avvolgeva di verde cupo schizzato dai totani a fontana. Preludio al blu oltremare nelle profondità al largo, tornante nell’astrazione dei pigmenti acrilici stesi in rettangoli increspati direttamente sul muro.

Nella mostra in Campania del 2017, Il cammino delle Certose, la penombra della Cappella del Tesoro di San Lorenzo a Padula accolse sulla boiserie la proiezione di Particolare (1972-1991). Intesa come suggerimento a concentrarsi su un punto di riflessione per emulare l’ascesa spirituale dei monaci nella scala claustralium. Su una parete antistante il Chiostro Grande della Certosa di San Martino a Napoli nel 2019-2020 per la mostra Verso l’aleph di Napoli, il rettangolo di pellicola Oltremare verso Est colmava il desiderio di un al di là precluso alla vista dall’interno. Questa traccia effimera raggelata con la pandemia, contro ogni insistenza è stata cancellata per volontà dell’artista. Il rito prevedeva che alla fine la materia scomparisse. Resta impresso in quanti hanno avuto modo di partecipare il giorno del solstizio d’inverno all’inaugurazione, il processo di trasmutazione affidato all’opera con un refrain caro a Anselmo.

E in chi aveva avuto la fortuna di incontrarlo, l’aura sottile umana, campo di radiazione luminosa di una potente gentilezza d’animo.

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