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Nella mostra di Marcello Maloberti a Milano non è esposto quasi nulla
Arte contemporanea
C’è un’aria di sospensione, non quella che precede un evento, ma quella che segue un sogno. Il mondo sembra trattenere il respiro, rigettare la fame del corpo. È una quiete che non consola, un vuoto che pulsa. Ci sono attese che durano più di una vita intera, mentre fuori tutto si ricolma di azioni, collezioni, esperienze. In questa sospensione che sa di inizio e di fine, Marcello Maloberti ritorna alla Galleria Raffaella Cortese con INCIPIT, un progetto che inaugura un tempo nuovo nella sua ricerca, una fame nuova.

Curata da Giulio Dalvit, la mostra, in corso fino al 23 dicembre 2025, coincide con il trentesimo anniversario della galleria e, simbolicamente, con una rinascita; quella dell’artista, ma anche quella del gesto stesso di “esporre”. Il titolo è già un programma: Incipit. L’inizio come soglia, ma anche come caduta. Come nella Conversione di San Paolo, la luce non rivela ma abbaglia. È un trauma che spoglia la scena, riducendo tutto a essenza. Se la caduta di Paolo era rivelazione, in INCIPIT la rivelazione è il vuoto stesso, il punto zero dell’esperienza.

Nei tre spazi milanesi non c’è quasi nulla. Non c’è da vedere, non c’è da ascoltare, solo echi, vibrazioni, respiri che fanno del silenzio una materia viva. Una sola targa in ottone, uguale in ciascun luogo, recita una frase: “IL PUBBLICO DEVE RIMANERE NELLA SUA FAME.” Non è un avvertimento, è un atto. La fame come forma di attenzione, come stato di allerta. La fame come desiderio di presenza, come impossibilità di sazietà. L’opera non si moltiplica, insiste. È una via crucis dell’assenza, una liturgia muta che attraversa lo spazio e lo trasforma in domanda.
Maloberti sceglie il silenzio. Toglie, invece di aggiungere. Fa spazio, invece di occupare. È un gesto minimo, ma necessario, un atto di resistenza contro la saturazione del linguaggio, contro la bulimia dell’immagine e del significato. In un tempo che divora tutto, INCIPIT sceglie di restare affamato. Questa fame diventa il vero motore dell’opera: non come mancanza, ma come desiderio di intensità, come energia che tiene in vita il senso stesso dell’arte.

Il visitatore attraversa i tre spazi come un pellegrino. Ogni passaggio è un atto performativo, dove il corpo entra nella misura del tempo, diventa parte della ripetizione. La mostra non si guarda, si attraversa. È un esercizio fisico dello sguardo, un respiro lungo che dura quanto la soglia tra una stanza e l’altra. Qui Maloberti si mostra vulnerabile, spoglio, quasi nudo davanti alla propria necessità. Non offre immagini né narrazioni, ma una condizione, il vuoto come campo di resistenza, la fame come pratica spirituale.
Non si tratta solo di silenzio o di sottrazione. INCIPIT racconta la fame come stato di coscienza, come gesto creativo del divenire, come desiderio che non si consuma. È un invito a “restare nel proprio vuoto”, a riconoscere la misura del tempo, a non colmare l’attesa ma ad abitarla. È un’opera che parla del fare come del non fare, dell’ascoltare come del trattenere.

E allora ci si chiede, può la fame diventare una forma di conoscenza? Può il silenzio essere ancora un linguaggio politico, un atto di presenza? Forse sì, se l’arte riesce a trasformare l’assenza in gesto, il vuoto in parola, la mancanza in tutto.
La mostra non si lascia spiegare, ma solo attraversare. È un esercizio di attenzione, un corpo di luce e di attesa. Nessuna immagine, nessuna scena, solo il residuo luminoso di una frase incisa sul metallo, che continua a vibrare dopo l’uscita, come un’eco che non si esaurisce. Una fame che non si placa, ma che tiene svegli, vivi, presenti. Forse è questo il compito dell’arte oggi, ovvero, restare affamati del mondo, anche quando il mondo non ha più nulla da offrire, eccetto gli orrori.












