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OFFSCREEN 2025 si svolge in uno storico ospedale sulla Rive Gauche
Arte contemporanea
Dopo due anni nell’edificio brutalista Grand Garage Haussmann e la prima edizione nell’Hôtel Salomon de Rothschild, location molto parigina in quanto tipico hôtel particulier, OFFSCREEN approda ne La Chapelle Saint-Louis de la Salpêtrière dal 21 al 26 ottobre, sul terreno di uno storico ospedale sulla Rive Gauche. Appena entrati al suo interno si avverte una sensazione diversa, come se qualcosa fosse cambiato nonostante l’anima sia rimasta la stessa: focus su pochi artisti contemporanei, 28 in questo caso, che lavorano con installazioni, video e fotografia. Questa sede si presta a essere ospite di interventi di arte contemporanea, infatti sono state proposte sia installazioni che performance di artisti rinomati come Anselm Kiefer, Bob Wilson, Bill Viola e altri.
Lo spazio della Chapelle Saint-Louis ha una pianta a croce greca con quattro navate e 4 piccole cappelle. È articolato per quest’occasione in un’anticamera, seguita dalle due navate che tagliano perpendicolarmente lo spazio e da 4 cappelle, coperte da altrettante cupole, che circondano uno spazio centrale. Il cuore è quindi la sala ottagonale che, ben illuminata dall’oculo della sua imponente cupola, ospita una toccante performance: This Mortal House Building 3 di Maria Stamenković Herranz. L’artista bendata costruisce una spirale di 1,440 mattoni crudi; la spirale è simbolo che si collega anche alla numerologia di Fibonacci e alla perfezione dei costrutti naturali. Lo sforzo della costruzione viene alimentato dalla parentesi temporale in cui si svolge, 7 ore, dalle 11 alle 18 del 21 ottobre.

L’ultimo braccio della croce è diviso dal resto in quanto vi erano stati ricavati i depositi: aperti eccezionalmente, i 3 piani ospitano delle istallazioni video. La Chapelle Saint-Louis de la Salpêtrière fu originariamente progettata da un architetto del re Luigi XIV e portata a termine da Libéral Bruant, progettista dell’Hôtel des Invalides e di Notre-Dame des Victoires. L’imponente chiesa è costruita a forma di croce greca, con quattro navate e quattro cappelle che circondano una sezione centrale sormontata da un’imponente cupola ottagonale con finestre e un oculo che permette il passaggio della luce.
Prima di diventare un ospedale, nel XVII secolo era un ospizio-centro detentivo per donne “degenerate”. Nell’Ottocento si trasforma in un manicomio specializzato in donne affette da “isterismo”. Fu sede dei primi studi pre-psichiatrici e trattamenti per la follia. Di questa natura rimane traccia nelle fotografie di Albert Onde (1858-1917, Francia) esposte nei depositi eccezionalmente aperti per OFFSCREEN. Nello stesso piano viene poi presentato il video del vincitore del Premio Dior Joel Quayson: How do you feel. L’artista guarda dritto in camera presentando due caratteri distinti, come se la nostra identità fosse legata al ruolo che vogliamo interpretare. La prima versione lo vede vestire una camicia bianca immacolata, l’uomo in carriera formale, pulito, ben accetto dal sistema capitalista. La seconda versione mentre applica sul suo volto strass, glitter e stickers, il suo lato più libero e connesso con la sua querness. Certamente, anche questa tipologia di make-up è una tendenza degli ultimi anni e fa pensare a quanto, nonostante cerchiamo di affrancarci dalle aspettative sociali, finiamo per indossare delle maschere. In queste vesti come ci sentiamo?

Un piano è poi dedicato alle opere acquisite dallo ZKM — Urs Lüthi, Untitled 1973 in cui l’artista guarda impassibile in camera mentre una mano femminile accarezza il suo volto e Analivia Cordeiro (1954, São Paulo), M3x3 1973 video che testimonia il movimento di 9 ballerine che eseguono una coreografia costruita secondo movimenti suggeriti dalla tecnologia del computing. Anche il design del palco (una griglia con linee nere e spazi bianchi) e i costumi suggeriscono una fusione tra corpo e spazio, in un approccio minimale e geometrico.
All’ultimo piano lo spazio viene animato dall’opera acquisita dal Centre Pompidou, The Magic Sun (1966-68) di Phill Niblock (1933-2024, USA), in cui la musica e l’immagine trasportano il fruitore, il ritmo e i movimenti della camera astraggono la realtà sulla pellicola in bianco e nero, trasformando volti e strumenti in geometrie e pattern, luci nette e ombre subitanee.
Offscreen 2025: nomi e opere da tenere d’occhio
Se nel 2024 OFFSCREEN aveva reso omaggio a Chantal Akerman, quest’anno è la volta di Shigeko Kubota, rinomata pioniera della videoarte. Attira l’attenzione soprattutto River (1979-81) in cui l’artista sospende tre monitor CRT sopra una vasca in acciaio inossidabile. Sono posizionati a testa in giù così da non poter essere direttamente esperiti, eppure le loro immagini in movimento dai colori vivaci si riflettono sulla superficie specchiante. La vasca è resa ancora più dinamica da un sistema di acqua corrente e da schegge di vetro che come dei prismi ottici giocano con le cromie e le immagini cangianti dei video. In generale, all’interno della fiera OFFSCREEN di Parigi, le opere che abbiamo selezionato si muovono lungo un filo comune: la tensione tra memoria, percezione e sopravvivenza in un mondo dilaniato da guerre, scosso da cambi di governo, frammentato e reinventato di continuo da tecnologie che si evolvono rapidamente.

Il collettivo ucraino Yarema Malashchuk & Roman Khimei (Galerie Poggi) presenta la video-installazione You Shouldn’t Have to See This (2024), un loop di 7 minuti e mezzo che ritrae alcuni bambini mentre dormono. Nonostante i video installati su cubi rosa diano, di primo acchito, una sensazione di beatitudine e silenzio prodigioso, si tratta dei bambini ucraini rapiti e deportati in Russia, poi restituiti alle loro famiglie. Lo sguardo dello spettatore si fa così complice e testimone di un trauma collettivo. L’opera denuncia un crimine di guerra tuttora in corso, ma al tempo stesso restituisce un racconto intimo sull’infanzia in tempo di guerra.
Il collettivo Estampa (Chiquita Room, Barcellona) adotta invece un approccio critico e archeologico alle tecnologie digitali. Programmatori e registi, i membri del gruppo interrogano l’intelligenza artificiale attraverso un uso poetico e paradossale dei suoi stessi strumenti. In questa occasione presentano una serie di fotografie storiche analizzate dal modello di visione artificiale YOLO9000, addestrato su milioni di immagini e 9.000 parole. Le opere riflettono sulla logica della sorveglianza, sulla tensione fra gli elementi che compongono un’immagine e sul modo in cui un algoritmo tenta di decifrare la realtà. L’effetto è insieme critico e ironico: gli errori di riconoscimento della macchina producono un cortocircuito comico, rivelando l’impossibilità di una visione oggettiva e la fragilità dell’intelligenza artificiale come strumento di verità.

Harlan Levey Projects di Bruxelles presenta un solo show dell’artista polacco Marcin Dudek. Al centro un’installazione che profuma di vita vissuta, si tratta infatti del piccolo salone per capelli aperto clandestinamente dalla sorella nelle fondamenta del loro appartamento, parte di un complesso di edilizia popolare. La storia risale a quando, a soli 10 anni, nel 1989 assistette al collasso della Repubblica Polacca. Per cercare di sopravvivere il padre e la sorella aprirono un parrucchiere e un calzolaio nel garage.
Questa installazione si nutre quindi dei ricordi perduti, dell’affetto per la sorella più grande che lo ha avviato alla carriera artistica. All’età di 11 anni infatti finì nel giro degli hooligan della squadra KS Cracovia per seguire il fratello più grande, tuttavia la morte di un suo caro amico a 21 anni lo convinse a lasciare la strada della tifoseria violenta, iniziò a disegnare e copiare le opere d’arte più famose e la sorella mandò di nascosto il suo portfolio così potè iscriversi all’Accademia d’arte e poi studiare alla St. Martin di Londra. L’opera in sé è composta dagli arredi, dalle pareti, dagli strumenti di lavoro del piccolo salon e dai capelli raccolti in due anni dalla sorella.
L’artista lituano Vytautas Kumža (Copperfield & Martin Van Zomeren) presenta fotografie e sculture dal carattere metafisico, in cui oggetti quotidiani — gusci di ostriche, fili d’erba, crini di cavallo — entrano in relazione inaspettata, generando associazioni simboliche e surreali. «È come se fosse lo sguardo dello spettatore a costruire la narrativa,” spiega Andrea, gallerista di Copperfield. “È un po’ il concetto di pareidolia, la tendenza del nostro cervello a trovare forme nel caos. Non siamo abituati al disordine, quindi cerchiamo sempre dei pattern. È lo stesso meccanismo per cui guardando le nuvole diciamo ‘quella sembra un cavallo’ o ‘quella un volto’». Anche nelle sculture l’artista applica questa poetica della percezione. Quelle realizzate per il museo Stedelijk di Amsterdam uniscono materiali disparati — chiavi, bicchieri, coltelli, teste di spazzolini elettrici — inglobati nella resina epossidica trasparente. «È come se qualcuno si fosse seduto e, alzandosi, avesse lasciato sulla sedia tutta la propria vita», continua Andrea. «Quella sedia diventa la metafora della trasparenza dell’anima, del passaggio di una presenza invisibile».

Al centro della mostra parigina, una libreria attraversata da una frattura volutamente violenta raccoglie piccoli oggetti trovati: Kumža li cerca per strada, nelle case degli amici, nei cassetti. Questa raccolta ossessiva traduce la sua ipersensibilità verso gli oggetti e i segni minimi del mondo. Nato in una famiglia lituana profondamente cattolica che non ha mai accettato la sua queerness, l’artista ha sviluppato fin da bambino la capacità di cogliere sfumature impercettibili — una porta socchiusa, un fornello acceso, un gesto nervoso — come strumenti di sopravvivenza emotiva. Oggi quella stessa attenzione diventa linguaggio visivo, dove ogni frammento quotidiano si carica di un potenziale narrativo e spirituale.
Dorothy Cross (Kerlin Gallery), artista multimediale e scultrice irlandese di Connemara presenta Room 2019, uno Squalo da 150.000 euro emerge dalle onde increspate di una lastra di marmo di Carrara, il cortocircuito è generato dal fatto che la storia di questa specie risale a più di 420 milioni di anni fa, una storia più antica della pietra dalla quale l’esemplare scultoreo è generato.














