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«Racconto il presente per quello che è e per come lo viviamo», parola di Ruben Montini
Arte contemporanea
C’è un posto, che Ruben Montini ha trasformato nel suo studio, che nel quartiere di Barriera – in Via Santhà 41 – prende vita ogni giorno. Vita di Ruben, che mette nelle sue opere e che dà a noi, consentendo quella caleidoscopica emozione della trasformazione di qualcosa di autobiografico in qualcosa di collettivo. Oggi proprio accadrà – perché sì, le performance accadano e sono agite – La Sacra Famiglia, la nuova performance che l’artista presenta insieme alla sua galleria, Gaburro.
Quando si tratta di performance si condivide un tacito codice che, nei suoi punti, annovera anche il divieto di svelare. Ma quando la performance incontra l’amicizia e la stima, quando incontra rapporti che negli anni esistono, resistono e persistono, con una forza che forse non si immaginava, allora – pur senza svelare nulla – qualcosa succede. E allora, vado subito al dunque..

Ruben, come stai? Non è un mistero, per noi e per chi ci legge, che da tanti anni condividiamo amicizia, lavoro, progetti, gioie e patemi. Mi permetto allora, conoscendo performance come MADRE (2019) o Un figlio imprevisto (2020) – per citarne qualcuna – di chiederti, prima di addentrarci nel nuovo progetto, che cosa è per te la famiglia…
«Ciao Elsa, buongiorno.. che bello che hai iniziato questa intervista esplicitando la nostra amicizia e il fatto che, da tanti anni, condividiamo tante cose della nostra vita professionale ma anche privata. Quando mi hai proposto l’intervista, speravo proprio che iniziassi con questa introduzione. Quindi…cercherò di risponderti come se questa fosse una delle nostre lunghissime telefonate! Se mi chiedi cos’è la famiglia.. mi vengono in mente immagini come quelle dei pranzi e delle cene sulla famosa terrazza romana di Le fate ignoranti (Ferzan Özpetek, 2001), dove una grandissima famiglia di elezione si ritrova a consumare i pasti, in maniera gioiosa, ma anche a prendersi cura vicendevolmente le une delle altre. Ho questo desiderio e convinzione di pensare alla famiglia come a un gruppo di persone che si sono scelte, e che ci sono sempre, ognuna nelle modalità e nelle tempistiche che le sono più consone. Persone che, a volte, sono anche lontane tra loro fisicamente (penso a delle persone che considero parte della mia famiglia nonostante vivano a Londra o a Parigi) e non possono essere sempre presenti fisicamente: ma ci sono. Le famiglie sono quelle unioni unite da tanto amore e dal prendersi cura vicendevolmente. Anche quelle che alcune persone si divertono a non considerare tali da un punto di vista legale, a seconda delle loro convinzioni personali, religiose, o per altri interessi a noi sconosciutiı».

Che posto, o che narrazione visiva, hanno preso queste considerazioni nei tuoi lavori più recenti?
«Penso al mio lavoro Ritratto della mia famiglia nell’Italia Meloniana (2025) che ritrae una coppia di uomini, una famiglia omogenitoriale, in prigione mentre il loro figlioletto cerca di aggrapparsi a loro attraverso le sbarre. Perché questo vorrebbe oggi il nostro governo. Oppure mi viene in mente la storia di Camilla Seibezzi, psicologa e politica italiana, Consigliera Comunale di Venezia dal 2010 al 2014 e delegata ai diritti civili del Sindaco di Venezia nel 2013 – 2014, che nel corso del suo incarico ha condotto numerose battaglie, come per esempio l’introduzione del progetto “leggere senza stereotipi” che ha portato in ogni scuola (0-6 anni) del comune di Venezia 50 fiabe contro tutte le discriminazioni; o l’introduzione della dicitura “genitore 1 e genitore 2”, dimostrando come da una sollecitazione dal basso, ovvero dalle amministrazioni cittadine, potesse nascere un’iniziativa che arrivasse poi fino al Governo. Nella mia performance Di questo mondo orfano di futuro, noi siamo il corpo, il sangue e il futuro – del febbraio 2024 alla Galleria Michela Rizzo di Venezia – ho coinvolto proprio lei, Camilla Seibezzi, che ha dato vita a un vero e proprio comizio politico in cui gridava la necessità di diritti per le famiglie omogenitoriali, e che (cito un suo post Instagram del 19 giugno 2025) “Nel nome della Costituzione Italiana a partire da quest’istante sono anche legalmente la madre di mia figlia Francesca. Un viaggio lungo 16 anni che ci ha visto scalare le montagne e ora finalmente scendere libere verso il mare”. Ecco .. penso a queste famiglie che devono lottare per tanti anni per essere riconosciute».

Veniamo a oggi, a La Sacra Famiglia. Dove, e come, la tua biografia e la collettività possono incontrarsi e confrontarsi?
«Se in lavori come MADRE (2019) e Di questo mondo orfano di futuro, noi siamo il corpo, il sangue e il futuro (2024) parlo dal punto di vista di un uomo omosessuale che vorrebbe essere genitore, ne La Sacra Famiglia torno a parlare dalla posizione di figlio. Soprattutto, parlo per chi non ha il “palcoscenico” che ho io. So che questo potrebbe subito avvicinare il mio lavoro alla missione dell’attivista ma, come spiega magistralmente Gülsün Karamustafa in un video di Louisiana Channel “.. activism is something else…you know.. for being the activist you have to take your battle instrument, go and fight for it. Activism is something that you go and fight yourself with your axe”. L’attivismo nell’arte o “l’artivismo” mi sono interessati per tanti anni, venendo io da studi e da una grande fascinazione verso il lavoro di Tania Bruguera, ma oggi mi piace considerare che una delle valenze dell’arte possa essere quella di raccontare il presente per quello che è e per come lo viviamo. In Italia, spesso, le persone del sistema dell’arte mi dicono “tu sei l’attivista”, solo perchè le mie opere sono cariche di istanze urgenti della comunità queer. Oggi io preferisco definirmi, invece, “voce narrante” di alcune realtà della mia comunità. E quindi, alla soglia dei 40 anni, torno a “impersonare” un ragazzino, una ragazzina, una giovane persona non binaria o in transizione, che hanno visto un grande aumento della violenza domestica durante e dopo la pandemia del 2020.. il luogo che chiamiamo casa che, per troppe persone (penso alle donne vittime di violenza domestica e penso alle persone queer vittime di violenza queerfobica famigliare), è diventata una trappola, un inferno da cui non poter fuggire neanche per 10 minuti al giorno. La Sacra Famiglia, dunque, in cui incarno chi non ha le gambe per fuggire dalla propria famiglia, è un attacco al pensiero perbenista comune per cui una famiglia sia sacra a priori e altre, a priori, non lo siano».

Senza svelarcelo, perché la parola d’ordine è esserci, come spezzerai – anche questa volta – i limiti dell’indifferenza? Verso quali margini condurrai la nuova azione?
«Come dici tu, non vorrei svelare troppo. Quello che posso anticipare è che è sicuramente il mio lavoro, ad oggi, più complesso da un punto di vista di linguaggio e metodologico. La mia pratica in studio, quella tessile e oggettuale, si fonda completamente con il mio linguaggio performativo, in una continuità tra azione e scultura, staticità e performatività che oggi mi interessa ricercare con cura».
Consentimi di chiudere con una frase di Le Breton che abbiamo già condiviso, «Un patto destinato a durare a lungo nel tempo, del quale si servirà regolarmente per lenire le sue difficoltà a vivere. Invece di lasciarsi schiantare dall’intollerabile». A te l’ultima parola…
«Chiuderei anche io con una citazione che ho voluto anche come introduzione a uno dei testi che compongono il mio prossimo catalogo in uscita a breve, pubblicato dalla Fondazione MACC: “.. come al mattatoio la bestia appena sgozzata, stretta ai fianchi da una cinghia, continua a galoppare nel vuoto” (da “All’amico che non mi ha salvato la vita, Hervé Guibert”)».















