22 ottobre 2022

Rachel Harrison, o di un’idea sociale di scultura

di

Rachel Harrison, o della certezza che la scultura contempranea nella sua antimonumentalità sia anche un antidoto al suprematismo ideologico imperante

Rachel Harrison, Rainer Werner Fassbinder, 2007 (detail). Courtesy the artist and Greene Naftali, New York. Photo A. Burger

In una serie di note apparse di recente sulla rivista ArtForum in occasione della morte di Claes Oldenburg una frase dell’artista americana Rachel Harrison colpiva quanto la complessità di questa sua nuova personale “Ho preso un treno diretto da Rodin a Oldenburg, sorpresa di trovare quella linea in funzione”. Un trip domestico che si delinea tra le tante stanze in cui ha suddiviso lo spazio del museo Astrup Fearnley a Oslo giocando sull’idea di interior e sul significato del suo lavoro pluridecennale. Un metodo innestato sull’idea della forma scultorea che può a seconda del contesto in cui appare essere utilizzata dall’assurdo del quotidiano fino alla potenzialità di una feroce critica sociale.
L’artista é sempre stata, a discapito della leggerezza e dello humor intriseco dei suoi materiali un artista politica. Potremmo interpretare altrimenti la maschera dell’agguerrito e guerrafondaio Dick Cheney appesa sul retro della testa della sua donna manichino?

Rachel Harrison, Venus, 2021 (dettaglio), ph.Evan Bedford, Courtesy the artist, Regen Projects, Los Angeles, and Greene Naftali, New York

In una vertiginosa mossa nell’ allestimento la accoppia ad una bellissima scultura dell’iperrealista Duane Hanson dei primi 70, già presente nelle collezioni del museo. Il pubblico é immerso in un gioco di riduzione delle distanze con un ‘idea di plasticità che solletica la scultura sociale di Joseph Beuys non meno che il catalogo dell’antico. Harrison é sempre pronta a rilanciare, inserisce infatti una bellissima parete di fondo che arbora una lunga serie di fotografie di sculture classiche, scattate negli anni in vari musei.
Questi dispositivi funzionano ma ci si interroga però sulla loro tenuta: è il problema con il classicismo che corre sotterraneo alla sottile persistenza di una nuova lingua egemone, ripescata dal neo-dada rauschenbergiano negli anni ‘90 da tanta giovane arte americana.
Un sistema materico come quello di Harrison è una miscela di classico ed appropriazione postmoderna, con un uso selvaggio di cose preesistenti – materiali di consumo e opere d’arte di altri artisti – a cui è permesso di svolgere i loro ruoli come parti e inserti nelle composizioni. Per esempio nella grande hall ora allestita all’ingresso di questo nuovo display di lavori dal 2012 ad oggi, colpisce la noncuranza con cui una infinità oggettuale che va dalla scarpa da tennis, alla pelle di pecora alle tovagliette in plastica fino ai fusti di vernice vuoti, contende il ruolo di vedette a riproduzioni di Nike di Samotracia o veneri attiche.

Rachel Harrison, Winged Victory, 2017 (detail). Courtesy the artist and Greene Naftali, New York. Photo Jason Mandella

È un gioco perverso nel quale la scatola da trasporto dell’artista concettuale Martha Rosler diventa il plinto di un lavoro oracolare e fronteggia in una simil pittura murale una sorta di stupa ipercolorato che in una nicchia accoglie una walking cup appoggiata distrattamente : un’altro rimando iperrealista. Si potrebbe pensare al solito giardino di sculture instagrammabili che prosegue la moda dei tanti parchi di sculture privati intorno ad Oslo da Ekeberg fino a Kistefos che punteggiano domeniche all’aria aperta. La curatrice e direttrice del museo Solveig Øvstebø aveva proposto nella sua mostra inaugurale una parata di sculture di Nicole Eisemann, straordinaria pittrice, ed i suoi assemblaggi a cui il mercato sta guardando ora con molto interesse. Questa versione del lavoro di Rachel Harrison ricorda molto quel gesto curatoriale , meno iniziatico e più accessibile al grande pubblico.
C’é un intera sala al primo piano trasformata in una surreale palestra dai colori acidi, che é di fatto la polaroid della faccia nascosta dell’utilizzo del tempo libero e di intrattenimento delle società opulente.

Rachel Harrison, Venus, 2021 (detail). Courtesy the artist, Regen Projects, Los Angeles, and Greene Naftali, New York. Photo Evan Bedford

Cosa pensare delle palle mediche, bandane e revolver che punteggiano improbabili biliardi e ed anelli per esercizi di un gym per schizofrenici. La società americana e quella norvegese confrontano il loro way of life per certi versi non così dissimile. La stanza meno riuscita é però paradossalmente quella politicamente più pregnante. La scultura Hot Topic Three del 2022 é immersa in un’atmosfera caotica al centro di una festa improvvisata con improbabili luci da discoteca. Gli oggetti però accuratamente scelti, un bastone per selfie ed una maschera antigas sono attorcigliati insieme, uno skateboard smarrito giace sparso sul pavimento ed una mazza da hockey pare dimenticata in un angolo. La stessa nonchalance delle altre stanze se non fosse che questi sono i residui oggettuali dell’assalto al Campidoglio a Washington del 6 gennaio. Ecco allora disegnarsi la filosofia sottesa al rumore bianco che generano gli assemblaggi coloratissimi di Rachel Harrison, la certezza che la scultura contempranea nella sua antimonumentalità sia anche un antidoto al suprematismo ideologico imperante. Proprio come per Rodin e Oldenburg …pensare in pubblico, pensare ad un monumento pubblico, quello che il pubblico non aveva (ancora) visto.

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