20 gennaio 2022

Restaurare l’arte contemporanea #2: il Grande Cretto di Alberto Burri

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Prendersi cura del Grande Cretto, il più memorabile intervento di Alberto Burri per l'abitato di Gibellina, in Sicilia e una delle più grandi opere di Land Art al mondo

Il Grande Cretto di Alberto Burri a Gibellina, ph. Daniel Farò

Una delle forme espressive più sorprendenti dell’arte contemporanea è, senza alcun dubbio, la Land Art. Quando l’artista interviene sul/nel paesaggio si confronta non solo con i materiali ma anche con la natura circostante. Tali dinamiche riemergono a livello conservativo e la vicenda del Grande Cretto di Alberto Burri ci mostra quali siano i maggiori problemi per un’opera di notevoli dimensioni realizzata all’aperto.

Il Grande Cretto di Gibellina, ph. Daniel Farò

L’artista, Alberto Burri

Alberto Burri (1915-1995) nasce a Città di Castello. Nell’estate del 1935 si arruola volontario alternando il servizio militare allo studio fino a conseguire la laurea in medicina nel 1940. Durante la guerra viene catturato dalle truppe inglesi nei pressi di Tunisi (8 maggio 1943) e finisce in un campo di concentramento americano: proprio qui si avvicina alla pittura intuendo che sarà questo il suo futuro.
Dopo essere rientrato a Città di Castello si trasferisce a Roma. Esordisce nel luglio 1947 presentando opere legate ancora all’ambito figurativo. L’anno successivo, con la seconda personale, emergono già sperimentazioni di matrice astratta. Seguono i catrami (realizzati con olio, catrame, sabbia, vinavil, pietra pomice applicati su tela), le muffe (dove l’artista combina la ruvidezza della pietra pomice con l’olio), il primo gobbo (in cui la superficie dell’opera viene deformata dalla presenza di alcuni elementi metallici o rami incastrati sul retro del telaio) e il primo sacco (frutto dell’assemblaggio di vari pezzi di juta).
Quando Burri descrive la propria pittura parla di «un’irriducibile presenza che rifiuta di essere tradotta in qualunque altra forma di espressione. È una presenza nello stesso tempo imminente e attiva. Questa è quanto essa significa: esistere così come dipingere». Verso il 1955 inizia ad utilizzare il fuoco dando origine alle famose combustioni su legno, tela e plastica. Dopo qualche anno nascono i ferri in cui è il metallo ad essere modellato e saldato mentre negli anni Sessanta l’attenzione dell’artista torna alle plastiche. Gli anni Settanta sono caratterizzati dai cretti, superfici ricoperte da una mistura a base di collanti acrovinilici su creta, caolino, bianco di zinco e terre colorate. Verso la metà del decennio inizia ad utilizzare il cellotex: un impasto di colle e segatura di legno che veniva solitamente impiegato come isolante nell’edilizia. Le tavole, utilizzate fino a quel momento come supporto, vengono ora scavate e graffiate mettendo a nudo l’essenza del materiale.
Alberto Burri abbandona ben presto la dimensione squisitamente formale dell’arte per offrire alla materia un ruolo da protagonista: ecco dunque che, attraverso un percorso lungo cinquant’anni, i grumi di colore, gli strappi, le cuciture, le bruciature, i cretti ci restituiscono emozioni e turbamenti di una vita. Sensazioni che, in fondo, appartengono ad ognuno di noi. Come sosteneva acutamente l’artista tifernate l’opera è viva e si racconta.

Il Grande Cretto di Alberto Burri a Gibellina, ph. Daniel Farò

Il Grande Cretto di Gibellina

La stagione dei cretti occupa all’incirca la prima metà degli anni Settanta. In questi lavori l’artista non abbandona lo studio fenomenologico della materia ma subordina l’atto creativo al fattore “tempo”: dopo aver steso sul supporto l’impasto (la cui formula esatta resta sconosciuta) ne osserva l’evoluzione. Man mano che procede l’essiccamento egli assiste al dipanarsi delle fenditure sulla superficie e attende che questa partitura calligrafica acquisti una propria identità prima di fissarla tramite ripetute stesure di colla.
Burri lavora con diversi formati e fra le molte opere prodotte spiccano i due esemplari di Grande Cretto Nero (5×15 metri) conservati a Napoli nel Museo di Capodimonte e a Los Angeles nel Franklin D. Murphy Sculpture Garden della UCLA.
Tuttavia l’apice di questo percorso è rappresentato dal memorabile intervento compiuto in Sicilia. Nel gennaio del 1968 il terremoto del Belice rade al suolo l’abitato di Gibellina che viene ricostruita a circa 20 chilometri di distanza dalla sede originaria. All’inizio degli anni Ottanta il sindaco Ludovico Corrao invita alcuni artisti ed architetti molto noti ad offrire il proprio contributo di idee alla rinascita della città. Alberto Burri visita Gibellina Nuova nel 1981 ma resta sconvolto dalla sua poca organicità e chiede di vedere Gibellina Vecchia: le macerie lo colpiscono profondamente suscitando in lui il bisogno di “elaborare” questa immane tragedia con un’azione artistica che riconosca la potenza del sisma ma doni, al contempo, una sorta di sacralità al luogo.
L’idea è quella di realizzare un’enorme gettata di cemento bianco che incorpori al suo interno le rovine (quindi le case, gli oggetti ma anche i corpi di alcuni degli abitanti periti durante il terremoto) rispettando la planimetria dell’abitato originario. Le crepe del cretto avrebbero ripercorso le strade e le piazze di Gibellina rappresentando, allo stesso tempo, le ferite inflitte alla terra dalla calamità. L’artista lascia detto che non si sarebbe dovuto costruire nulla intorno all’opera per rafforzare la percezione di un dialogo silenzioso fra essa e la natura circostante. I lavori partono nel 1985 e vengono interrotti nel 1989 avendo coperto circa 68.000 mq degli 86.000 mq previsti. Nel 2013 il cantiere riapre e dopo due anni la maggior opera di Land Art d’Europa risulta finalmente compiuta.

Il Grande Cretto di Gibellina, ph. Daniel Farò

Il restauro

Nel 2008 il Prof. Giovanni Rizzo, ingegnere chimico e docente universitario a Palermo, pubblicava lo studio relativo ad una prima campagna d’indagine sul Grande Cretto. In seguito alla raccolta di materiale fotografico e sulla scorta di analisi svolte in situ e in laboratorio lo studioso segnalava l’opportunità di un primo intervento conservativo auspicando, inoltre, la messa a punto di un protocollo di manutenzione ordinaria.
La struttura del Grande Cretto consta di muri in calcestruzzo armato alti circa due metri su cui poggiano ulteriori lastre di calcestruzzo con rete saldata. In alcuni punti erano presenti delle criticità poiché, per rispettare il desiderio dell’artista, non erano state seguite del tutto le regole della buona messa in opera: l’aver utilizzato lamiere deformi per creare le parti ondulate del cretto aveva provocato, infatti, una disomogeneità nella protezione dei ferri di sostegno. Erano presenti, inoltre, dei vespai connessi alla segregazione del calcestruzzo.
Ad una prima analisi il materiale non mostrava un particolare degrado della struttura chimica ma risultava indebolito sia dalla formazione di ruggine sulle componenti ferrose che dall’interazione con il terreno. La presenza di patine corrosive aumentava il volume dell’armatura interna e, col passare del tempo, tale incongruenza poteva provocare fenomeni di fessurazione con penetrazione degli agenti atmosferici. Le analisi svolte sul posto, ossia la misura di carbonatazione e la mappatura di potenziale, avevano evidenziato che i ferri maggiormente esposti stavano subendo un processo di degrado più rapido rispetto alle armature inglobate nel calcestruzzo meno poroso.
Un altro fattore da monitorare erano le alterazioni cromatiche superficiali causate dalla presenza di organismi biodeteriogeni (batteri, funghi, licheni) e la proliferazione di piante dotate di apparati radicali molto tenaci. Attraverso la microscopia elettronica e l’analisi molecolare si prevedeva di individuare le varie specie presenti per poi stabilire gli interventi di contenimento più adeguati. Il Prof. Rizzo si era occupato anche delle mutazioni geotecniche: essendo il Grande Cretto costituito da “scatole” di cemento che inglobano al proprio interno le macerie della città vecchia appariva chiaro che nei punti in cui il versante del pendio tendeva a muoversi l’energia cinetica sviluppata provocava delle lesioni sulla struttura. Per misurare la velocità di tali spostamenti era stato proposto di svolgere un’attività di monitoraggio (perlomeno annuale) abbinandola alla creazione di carotaggi, pozzetti d’ispezione e fori di drenaggio.
Lo studio dimostrava, dunque, che solo una conoscenza approfondita delle componenti naturali del territorio avrebbe permesso la conservazione otttimale del Grande Cretto.

Invito alla letturaStudio dei materiali costitutivi e dei fenomeni di degrado del Grande Cretto, a cura di Giovanni Rizzo, Palermo: RISO, Museo d’arte contemporanea della Sicilia, 2008.

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