06 marzo 2022

Ripartire da Biella: Zona Bianca Zero

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A Biella, alla Woolbridge Gallery, una mostra che è uno spaccato di realtà diverse, felicemente eterogenea e senza tentare di trovare una logica che giustifichi l’incontro fra i suoi diversi partecipanti: "Zona Bianca Zero"

Giovanni Termini: "Zona franca” 2006, ph. Michele Alberto Sereni

Con “Zona Bianca Zero”, la mostra curata da Giorgio Verzotti alla Woolbridge Gallery, Biella ha acquisito ufficialmente un nuovo importante polo espositivo, che si aggiunge a quello, ormai storico, della Fondazione Città dell’Arte, creata da Michelangelo Pistoletto, nel 1998. Questo contribuirà a fare di Biella una città strategica per l’arte. Il contesto è molto interessante, perché si colloca in prossimità di uno dei siti di archeologia industriale più significativi, segnalato a suo tempo, anche da Gae Aulenti. Dal confronto tra una realtà dismessa e una in continuo fermento e crescita, scaturisce la speciale energia di questo luogo – affacciato sulle sponde del torrente Cervo – che si è dato un ambizioso obiettivo di attività e di eventi da estendere al territorio, in collaborazione con le Fondazioni artistiche e culturali locali. A partire dai suoi 6800 mq di spazi utilizzabili – cui se ne aggiungeranno presto altri 8000, adibiti a laboratori di vario genere per supportare un ampio raggio di
attività anche nel campo della moda e del design – la Woodbridge Gallery si doterà di una Biblioteca, di Sale multimediali e di Conferenze e di un laboratorio di Restauro per il contemporaneo, per poter svolgere a tutto tondo il proprio ruolo nella trasmissione e innovazione culturale, nel solco già tracciato dalla Famiglia Azario. Discendente da Alfredo Pria, sin dall’800, questa era divenuta grazie a lui, un’eccellenza nel campo della produzione di tessuti e filati di lana, grazie alla collaborazione con i maggiori stilisti dell’epoca di cui è traccia nell’archivio storico che ripercorre l’evoluzione del costume e della moda dalla fine del ‘700 ai nostri giorni.

Filippo Manzini (in primo piano) e Carol Rama

“Zona Bianca Zero” prende spunto dall’uso di attribuire alle regioni, durante la pandemia,  diversi colori, dove il bianco rappresenta lo stadio della liberazione dai divieti e la ripresa della normalità. Zero ha a che fare con il “punto e a capo” da cui ripartono oggi
le attività della Woolbridge.
La mostra si presenta, allora, come uno spaccato di realtà diverse, non completamente inedite, felicemente eterogenea, senza tentare di trovare una logica che giustifichi l’incontro fra i suoi diversi partecipanti e senza alcuna esclusione preventiva creata da aree stilistiche e generi. Essa fa largo soprattutto alle esperienze più recenti, nate prima e durante la pandemia, dove è tuttavia evidente un riferimento a tecniche e materiali specifici
che una forte attitudine concettuale dirotta per altre strade, tentandone l’uso immaginario. L’analisi e l’adattamento che si vengono compiendo, si realizzano in itinere, senza timore di
mostrarsi per quello che sono, talora assurdi e inqualificabili, poiché cercano di esplorare
nuovi territori. A segnare il percorso, troviamo alcune pietre miliari, in ordine generazionale: Osvaldo Licini, Carol Rama, Michelangelo Pistoletto, Enzo Cucchi.
45 artisti disseminati su tre piani, non facili da riassumere nel loro diverso approccio ai
problemi, dei quali soprattutto alcuni sono restati impressi nella mia memoria.

Sergio Limonta: al centro Six angles three drums, 2021

Quasi subito mi viene incontro la struttura Zona franca di Giovanni Termini, esatta nella sua geometria, ma al tempo stesso sollecitante per il movimento potenziale dell’arco a forma di scala, concomitante alla forma appesa, che può far pensare a un’altalena che l’attraversi sulla linea della profondità, ancorché ben ancorata dal consistente peso
della cassetta di vetro. Poi, le sofisticate ceramiche di Luisa Protti che rubano il flessuoso andamento dell’acqua alla velocità del fuoco, e possono spuntare dal pavimento, veloci come piante, afflosciarsi e pendere morbide come panneggi o rapprendersi in agglomerati che si contrappongono alla liscia superficie del muro, sottolineando le tensioni.
Sergio Limonta con un’intera sala dominata dai suoi lavori al neon che nascondono dietro l’impatto luminoso la complessità di un lavoro in larga parte dominato dalla manipolazione fonetica dei segni. Filippo Manzini con una grande scultura originata – come è sua caratteristica – da una misurazione dello spazio, relativa al tempo d’installazione e dunque risultante dal preciso incrocio tra la dimensione virtuale e quella reale. Esperienza che si avvale anche di una esemplificazione fotografica. Massimo de Caria che instaura un dialogo poetico, in questo caso anche fra interno e esterno, attraverso il riuso di materiali prelevati da vecchie fabbriche, servendosi, all’occorrenza, anche del suono per integrare i diversi reperti nell’ambiente. Andrea Francolino con il suo sguardo sull’eterna frattura tra uomo e natura fra vita organica e strutture logiche, presenta qui una grande carta Hahnemühle, risultato del calco di una crepa sul suolo su polvere di terra.
Nazzareno Guglielmi, oltre a frammenti di sculture, espone una serie di meticolosi disegni d’après nature, nati nei giorni di reclusione nel lockdown, su verdura e frutta, dove il rosso sta a ricomporre, proprio le lacerazioni dei confini. Yari Miele con il ritaglio di marmi diversi, costruisce a parete un’armonica e variegata schiera di Costellazioni attraversate da interventi umani e tecnologici. Simone Pellegrini con la consolidata elaborazione di mappe archetipiche, crea configurazioni di segni e strutture millenari, che si stratificano attraverso una raffinata tecnica personale, riportata su carta da spolvero. L’impatto può evocare la grande temperie dell’Art Brut di Pierre Alechinsky, ma in uno stile più monumentale che narrativo. Carlo Dell’Acqua abituato a esprimersi con i media più diversi, ci propone un estroso Carosello, sorta di albero formato da seghe per metalli, attorno al quale si assiepano i suoi Oggetti parziali e Paravento. Francesco Arena è presente con alcuni suoi celebri lavori come Cube Book e Divisione del quadrato (una famiglia)Carlo e Fabio Ingrassia con L’insieme vuoto, Il bosco sacro e Rinunciare all’idea di un altro mondo, confermano il carattere metafisico di un lavoro impegnato a qualificare spazi imponderabili della memoria e dell’assenza, oltre la realtà puramente fisica. Gianluigi Maria Masucci, attraverso il pannello Pareidolia ci offre la trascrizione in segni di un atto performativo attraverso il quale l’esperienza del trasferimento in una dimensione altra e lo scioglimento di energie segrete che emergono dall’oscurità profonda viene portato in superficie, per essere messo sotto gli occhi della collettività. Anche la ricerca di Filippo Berta, Giuseppe Di Liberto e Enrica Borghi sono interessanti ciascuno per la diversa qualità rispetto al contesto.

Carlo Dell’Acqua, Carosello

Pur senza averle volutamente cercate, nell’apparente frammentazione di stili e linguaggi alcune linee appaiono come preferenziali, mostrando che l’impegno di questi ultimi anni consiste soprattutto nel sanare fratture e nel ricondurre la tecnica a un’espressione metamorfica di segno immaginario, e anche nello scavare in profondità nelle radici delle immagini, invece di utilizzare quelle che produce l’industria della comunicazione. Quanto alla pittura, non saprei pronunciarmi, nonostante le buone prove di Andrea Martinucci, Barbara De Vivi, Remy Deymier e Federica Perazzoli. Temo che senza l’entrata in campo di un soggetto che voglia confrontarsi in modo decisivo con le proprie emozioni, sia difficile rifondarla. È necessaria un’urgenza che il sistema pittura basato ormai su regole prive del proprio senso, non è riuscito ancora a riattivare.

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