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Rirkrit Tiravanija ci chiede in chi (o in cosa) crediamo ancora: la mostra a Parigi
Arte contemporanea
Ottava mostra personale alla galleria Chantal Crousel di Parigi per l’artista Rirkrit Tiravanija (1961, Buenos Aires). Visitabile fino al 22 novembre 2025, l’esposizione IN ALIENS WE TRUST spinge a chiedersi se è arrivato il punto in cui la nostra fiducia può essere riposta negli alieni o, forse, è proprio quella fiducia a giustificare la condotta della società odierna, che spera di potersi rifugiare in uno sguardo ancora acuto, poiché estraneo.
Si entra in un ambiente incredibilmente bianco: oltre alle pareti con questa boiserie bianco ottico, anche il pavimento è ricoperto di moquette bianca immacolata. Per mantenerla tale, dei robot aspirapolvere di forma circolare vagano per la stanza, intercettando a volte le pareti, altre le opere o, ancora, le scarpe dei visitatori (ora pulite anch’esse). Lo spazio è reso ancora più abbagliante dalla luce: ci si sente un po’ come alla fine di quelle serate in discoteca in cui, per incentivare il pubblico ad andarsene, si accendono le luci — luci nitide, chiare, che spengono la magia e ti riportano bruscamente alla realtà.

Nella prima sala si trova la fotografia che il padre di Tiravanija scattò ai suoi figli nel 1968, anno della morte di Marcel Duchamp, ad Addis Abeba, Etiopia, città in cui vivevano all’epoca. Tiravanija è ritratto all’età di sette anni insieme alla sorella, mentre indossa delle orecchie posticce da Spock, il celebre personaggio della serie americana Star Trek. Lo scatto in bianco e nero mostra la sorella in primo piano, sfocata, e lui nitido sullo sfondo, con queste orecchie a punta che, in seguito, l’artista considererà la sua prima vera scultura. Nell’immaginario della serie, andata in onda per la prima volta nel 1966, quelle orecchie sono il solo elemento che distingue Spock — in quanto unico membro alieno, metà uomo metà vulcaniano — dal resto dell’equipaggio.

L’immagine venne presentata per la prima volta nel 1993 con il titolo self-portrait, in seguito rinominato untitled 1968 (mr. spock). L’artista mette in atto una rinegoziazione continua anche dei propri lavori, oltre che della nozione stessa di “autore unico”, perseguendo una ricerca artistica che molto si rifà alla citazione, non solo della storia dell’arte ma anche di se stesso, con l’intento di «Destabilizzare lo status dell’oggetto autonomo e ampliare la possibilità del ready-made».

In quest’opera interviene l’artista Danh Vo, «Che utilizza spesso materiali carichi di storie collettive ma anche intime». In questo caso usa la calligrafia del padre, Phung Vo, che incide sul vetro della cornice la dichiarazione di intenti: “IN ALIENS WE TRUST”. La cornice che la contiene è realizzata in noce coltivato da Craig McNamara, figlio di Robert McNamara, Segretario alla Difesa sotto John F. Kennedy e uno degli artefici della guerra del Vietnam. Si crea così una fitta stratificazione semantica in dialogo e in contrasto: tra i materiali che compongono l’opera, gli agenti in scena — tramite autorialità e manifattura — e i soggetti rappresentati.

Nella stanza seguente, due uomini sono distesi sul pavimento uno di fronte all’altro, testa a testa, con ai piedi scarpe Adidas e le mani appena appoggiate a terra, in una posa simile a quella di animali che studiano l’avversario, ciascuno con due ramoscelli tra le mani come arma di difesa. Una delle due figure è una fedele riproduzione dell’artista, l’altra è l’amico e artista Udomsak Krisanamis, entrambi nelle vesti di creature preistoriche. Due primitivi «Che sembrano essere fuggiti da un diorama etnologico», ricoperti di peli scuri dalla testa ai piedi, con i capelli lunghi, e il loro oggetto del contendere sta esattamente nel mezzo: un pettine d’acciaio.

L’oggetto sembra una citazione fedele dell’opera che Duchamp concepì per la prima volta il 17 febbraio 1916. Sul dorso vi è inciso: “3 ou 4 gouttes de hauteur n’ont rien à faire avec la sauvagerie”, “3 o 4 gocce di altezza non hanno nulla a che vedere con la ferocia”. In francese, pettine si dice peigne e, per omofonia, l’oggetto rimanda all’attività dei pittori: ils peignent, “essi dipingono”. Duchamp abbandona la pittura nel 1912 a favore di un’arte della “materia grigia”. Non a caso, qui abbiamo due artisti in cerca di un pettine per districare i loro capelli / peli così fitti e folti. Forse quel pettine è proprio il mezzo che oggi gli artisti cercano per la creazione e che Tiravanija sembra ritrovare in forma chiaramente ironica, tramite la maniera in cui un qualsiasi «Testo culturale viene metabolizzato in contesti diversi» e di come, in questo caso, la “ferocia” sia solo un pretesto per accendere l’attenzione su un altro punto di contatto o contrasto. Ma quale?

Proseguendo si trova la serie dei cosiddetti Silver Paintings, tele di grandi dimensioni completamente ricoperte da foglie d’argento, applicate solo leggermente sulla superficie, motivo per cui, a ogni lieve movimento d’aria, esse si muovono, quasi come se fossero animate. Tra una foglia e l’altra, però, si intravedono scritte di giornale. Tiravanija legge quotidianamente i giornali e spesso li incorpora nelle sue opere. Quest’ultima serie, realizzata nel 2025, riporta le prime pagine del New York Times e, nei titoli tra parentesi, si può conoscere il riferimento al giorno citato, untitled (new york times january 21), per esempio. Ogni data rimanda a eventi recenti della politica americana: dal 21 al 28 gennaio, giorni dell’insediamento presidenziale di Donald Trump.

La tecnica della foglia d’argento è simile alla tradizione thailandese in cui la foglia d’oro viene applicata sulle statue del Buddha come offerta votiva. Di nuovo, lo spettatore si trova di fronte a una mutazione di significato: la vista è negata da un gesto votivo, come a scongiurare un atto sociale di speranza — o ancora di fiducia — non tanto nei confronti del contenuto nascosto, quanto in ciò che ora il prossimo è in grado di creare, restando sempre consapevole di ciò che lo ha già reso possibile.

Nell’ultima stanza, oltre agli aspirapolvere sempre in movimento, troviamo due tavoli da Go. Go è un gioco da tavolo cinese di tipo strategico, pensato per due giocatori. Generalmente su un unico tavolo si trovano sia le pedine nere sia quelle bianche, chiamate “pietre”, assegnate ai due giocatori, che devono collocarle sulle intersezioni vuote del tavoliere, detto goban. In questo caso, Tiravanija cambia le carte in tavola: un tavolo di legno di cedro Sugi del XIX secolo, acquistato dall’artista, e un altro prodotto in Thailandia, che poggia su palle da biliardo, contengono ciascuno un solo set di pietre (non due): nere su uno, bianche sull’altro, posizionate come parte di un’unica partita in corso. Le pietre si compensano: un’unica partita si gioca su due tavoli. L’artista riflette così sulla convivenza di due realtà diverse che coesistono in un gioco di compromessi: la posizione delle pietre bianche dipende da quella delle nere, e viceversa. Il gioco si fa metafora della convivenza sociale, in una «Coreografia di strategia, empatia e scambio».

Se si alza lo sguardo dai tavoli da Go, ci si ritrova di fronte alla scritta bianco su nero: “A HURRICANE IN A DROP OF CUM”, “un uragano in una goccia di sperma”. La frase sembra riprendere il poema-dipinto dell’artista della Beat Generation John Giorno (1936, New York – 2019, New York, USA). L’immagine ossimorica richiama quella del poeta britannico William Blake (1757, Londra – 1827, Londra, UK), secondo cui il mondo era contenuto in un granello di sabbia. Così, l’elemento naturale immensamente grande e distruttivo viene contenuto nella goccia più piccola e fugace ma anche più generativa del mondo.














