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«Saremo tutti migranti»: le architetture della memoria di Chiharu Shiota in mostra all’ICA di Boston
Arte contemporanea
Ricordo ancora quella volta in cui, per un trasloco troppo rapido e troppo emotivo, infilai la mia vita in due valigie e un sacco blu e giallo di una nota azienda svedese che produce mobili. Una di quelle valigie si ruppe già alla stazione. Dentro c’erano libri, foto, e un vecchio telefono che non prendeva più. Ma in quel momento era tutto: era la casa che lasciavo e quella che ancora non avevo trovato.
Forse per questo, camminando sotto le valigie sospese di Chiharu Shiota all’ICA Watershed di Boston, ho provato un’irresistibile vertigine: quella di riconoscere, in quegli oggetti immobili e fluttuanti, la mia stessa instabilità.
La mostra, parte della Boston Public Art Triennial 2025, si articola in due grandi installazioni che sembrano dialogare a distanza, come due voci all’interno dello stesso corpo. La prima, Accumulation – Searching for the Destination, è una ragnatela di fili rossi tesi dal soffitto (in pieno stile Shiota) da cui pendono decine di valigie d’epoca. Ogni tanto tremano, rimbalzano, senza toccare mai terra, attratte e sospinte dalla gravità, come scosse da un ricordo improvviso, o dall’ansia del viaggio imminente.
Nel padiglione centrale, i fili rossi si diradano, lasciando lo spazio a un percorso che il visitatore deve ottenere tra ulteriori oggetti, mobili, elementi, ricostruzioni di esistenze che appartengono a qualcun altro. E infatti la seconda installazione, Home Less Home, è un’intera architettura simbolica di corde rosse e nere: un “non-luogo” che simula una casa, popolata da letti, tavoli, sedie, documenti, lettere, passaporti, racconti scritti a mano — eppure tutto sembra sul punto di smaterializzarsi. È una casa mentale, più che fisica, che tiene insieme memoria e precarietà, affetto e perdita.

view, Chiharu Shiota: Home Less Home, the Institute of Contemporary Art/Boston,
2025. Photo by Timothy Schenck. © 2025 Artists Rights Society (ARS), New York / VG
Bild-Kunst, Bonn
Chiharu Shiota: una ritualità visiva e partecipativa
Le due opere non sono semplicemente da guardare: si abitano, si attraversano, si subiscono. E in questo movimento, il visitatore entra in un territorio fragile e instabile, simile a quello che vivono milioni di persone costrette a ripensare da zero cosa sia “casa”. Ma il grande merito di Shiota è che, pur partendo da una biografia precisa — la sua migrazione da Osaka a Berlino nel 1996, con una sola valigia al seguito —, riesce a trasformare quell’esperienza individuale in un linguaggio universale attraverso un processo di ricerca, che potremmo definire di “antropologia emozionale”. È un lavoro di cesello simbolico che sfiora la performance rituale e il teatro dell’assente, non a caso influenzato dai suoi studi con Marina Abramović, dove il corpo scompare ma la tensione resta.
Molti artisti contemporanei hanno affrontato il tema della migrazione e dello spostamento forzato. Basti pensare a Mona Hatoum, con i suoi tappeti elettrificati o le mappe esplose, oppure a Doris Salcedo, che lavora con la memoria delle assenze lasciate dalle vittime del conflitto colombiano. Ma a differenza di questi sguardi spesso politici e laceranti, Shiota sceglie una via più intima e simbolica: i fili rossi diventano sinapsi, vene, legami invisibili che uniscono non solo gli oggetti, ma le storie. È un’estetica del trauma, ma anche della cura: ciò che è rotto non viene nascosto, viene cucito, tenuto insieme, come nel kintsugi giapponese, che ripara le crepe con l’oro per renderle visibili e preziose.

Rotte e migrazioni interiori
In Home Less Home, l’artista ha coinvolto centinaia di abitanti di Boston, raccogliendo le loro testimonianze sulla casa, l’esilio, il ritorno. Alcuni hanno raccontato la neve vista per la prima volta, altri hanno inviato fotografie, certificati di immigrazione, lettere d’amore o di commiato. Ne risulta un mosaico che attraversa generazioni e geografie. Boston diventa il luogo di partenza per una riflessione che riguarda tutti noi – e oggi più che mai – a chi è a cavallo tra due continenti: dove finisce la casa e dove comincia l’altrove?
L’artista ci invita a smettere di pensare per categorie nette: rifugiati, espatriati, expat, nomadi digitali, turisti, evacuati, lavoratori stagionali… Le traiettorie dell’essere umano contemporaneo sono ibride, oscillanti, spesso non scelte. Il concetto stesso di “casa” si dissolve, come i fili di Shiota, in una trama collettiva fatta di ricordi, documenti, mancanze.
La sua opera ci ricorda che migrare non è solo spostarsi fisicamente: è anche cambiare lingua, perdere abitudini, riscrivere la propria identità pezzo dopo pezzo. E questo, volenti o nolenti, riguarda tutti. Perché, proprio come ha detto qualcuno: «Saremo tutti degli emigranti, anche quelli che abitano a casa loro».

Less Home, the Institute of Contemporary Art/Boston, 2025. Photo by Timothy
Schenck. © 2025 Artists Rights Society (ARS), New York / VG Bild-Kunst, Bonn














