08 novembre 2021

There Is No Place Like Home: intervista a Giuliana Benassi

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Gli artisti partecipanti, tutti legati a Roma ed eterogenei per linguaggi e generazioni, raccontano il loro rapporto con la città, attraverso l’interazione con lo spazio prescelto e il suo pubblico

There is no place like home _ Rome, via del Mandrione 347, roma 2021 ph Ilaria Lagioia

Si è concluso lo scorso 31 ottobre il progetto itinerante There Is No Place Like Home che, in questa sua ultima edizione ha fatto tappa a via del Mandrione (Roma), nell’ex fabbrica del Chinotto Neri, durata 72 ore. Approfondiamo questo originale e denso progetto artistico con la sua “regista”, Giuliana Benassi.

Costantine Cristoph, Passeggiata in mezzo alle ninfee, There is no place like home_rome, 2021 ph Ilaria Lagioia

Quando nasce e in cosa consiste il format There Is No Place Like Home?

«There Is No Place Like Home nasce a Roma nel 2014, precisamente in via Aurelia Antica, in un cantiere di una casa in costruzione dove oltre 20 artisti avevano lavorato a partire dallo spazio e dal tempo proposto: la mostra durava 72h consecutive. Il cantiere, una rovina “in positivo”, indicava proprio la volontà di costruzione che è alla base del progetto. Il format si è andato delineando negli anni, come progetto itinerante che costruisce mostre in luoghi e spazi sempre diversi con lo scopo di attivare un dialogo tra gli artisti, lo spazio e il contesto circostante. Dalla V edizione il progetto è sviluppato con i co-fondatori Giuseppe Pietroniro e Daniele Puppi».

Qual è la volontà all’origine del progetto?

«In principio era l’opera d’arte. Potremmo dire che il progetto alle sue origini è nato come risposta a un’urgenza: quella di mettere al centro gli artisti e le opere all’interno di un contenitore in cui le dinamiche del processo della creazione dell’opera d’arte e della libertà di azione dell’artista fossero messe in campo come condizione di riappropriazione».

Donatella Spaziani, Incontro di poesie, Jonida Prifti, There is no place like home _ Rome, via del Mandrione 347, roma 2021 ph Matias Biglieri

Come vengono scelti i luoghi che ospitano There Is No Place Like Home?

«I luoghi vengono scelti perché metafora di qualcosa d’altro. Alle spalle di ogni progetto c’è una grande ricerca legata al luogo. Mi spiego meglio con degli esempi: nel 2016 l’appuntamento era sul Tevere, in un peschereccio ormeggiato all’altezza di Ponte Marconi, nella parte bassa della città dove il rumore del traffico diventa un ricordo lontano e la vegetazione fluviale selvaggia, le baracche e il brillio della facciata di San Paolo Fuori le Mura si perdono nel fluire del fiume. O, come in questo appuntamento, in un grande spazio (ex Fabbrica del Chinotto Neri e più recentemente una storica palestra di pugilato “Body Fight”) su via del Mandrione. Tra l’antico acquedotto e la ferrovia, dove la bellezza e lo squallore convivono in una tensione costante. Dunque i luoghi sono scelti perché particolarmente attinenti a una lettura viscerale del contesto territoriale, riflettendo in qualche modo un sentire più universale. Spesso il pubblico si è trovato a scoprire dei luoghi della città prima inesplorati».

Perché la scelta di non avere una tematica? C’è una regia curatoriale canonica?

«Nessuna tematica è imposta a priori, se non il luogo. Chiaramente i sopralluoghi sono una parte fondamentale della costruzione della mostra, occasioni di confronto, scambio e intuizioni. Spesso gli artisti lavorano site-specific spostando letteralmente il proprio studio nel luogo della mostra. Per questo l’apertura al pubblico non è che una restituzione di quanto accaduto; in alcuni casi il processo è in fieri anche durante e dopo la mostra. Molte azioni avvengono in corso di apertura o addirittura dopo la chiusura. In questo progetto la mia è una “regia”, una direzione e non propriamente una figura curatoriale canonica, perché rispecchia meglio l’approccio e il metodo utilizzato per la costruzione della mostra, il cui processo richiede un costante dialogo e una grande apertura per attivare l’incontro tra gli artisti e lo spazio. Dunque la scelta dello spazio, degli artisti, il dialogo costante e la visione comune con i co-fondatori e, da quest’ultimo appuntamento con Pietro Arco Franchetti che ha supportato l’operazione, sono gli elementi scatenanti».

Elena Bellantoni, L’età dell’oro, There is no place like home_rome, ph Matias Biglieri

Anche il tempo costituisce un luogo da sperimentare dal momento che ogni mostra si svolge solo per pochi giorni?

«Sì il tempo, insieme allo spazio, partecipa a questa indagine sulla possibilità di riflettere sulla dimensione del processo artistico. Veloce come una visione, il progetto trasforma lo spazio in un lasso temporale breve, ma allo stesso tempo intenso e vibrante, soprattutto quando non conta le ore del giorno, ma abbraccia anche la notte e l’alba. In molti luoghi ci siamo ritrovati a dover fare i conti con la mancanza di elettricità e ricorrere ad un gruppo elettrogeno che metaforicamente tiene accesa la mostra fino al suo spegnimento nell’orario di conclusione prestabilito. Da lì in poi non si può più vedere nulla. Nonostante la durata breve, strada facendo abbiamo scoperto che il format funziona come attivatore di luoghi dimenticati o poco conosciuti, perciò diventa portatore di valorizzazione e in alcuni casi, si attiva una grande cooperazione con il territorio. In questa VI edizione è nata una collaborazione con il Comitato di Quartiere “Noi ci siamo” interessato a riattivare l’area in senso culturale, cosa che ci ha permesso di coinvolgere nello staff organizzativo alcune personalità del quartiere».

Qual esperienza distintiva proponete al visitatore di questa tipologia di progetto espositivo?

«Se pensiamo al progetto come a una grande esperienza in divenire, il visitatore è accolto in un luogo per la maggior parte delle volte non conosciuto e, a ogni modo, trasformato nelle ore della durata della mostra: può attraversarlo e compiere una lettura accompagnato dalle opere in mostra, inedite, site-specific e in sintonia con il luogo. La sfida è anche quella di abbracciare un pubblico ampio, non solo di addetti ai lavori. Per esempio, in quest’ultima edizione ci sono stati oltre 2.000 visitatori di giorno e di notte, da mezzogiorno di venerdì 29 ottobre alla mezzanotte di domenica 31 ottobre. Dalle persone del quartiere agli addetti ai lavori, dai giovanissimi ai reduci dei locali in cerca di un luogo per riempire la notte. Ecco in questo ampio raggio di pubblico si dà l’esperienza dell’incontro con l’arte contemporanea, in un luogo insolito dove le opere si presentano liberamente al di là di ogni condizionamento e limite proprio di un canonico sito espositivo. L’esperienza è di avvicinamento all’arte, di pausa e di riflessione».

Felice Levini con l’opera di Simona Caramelli, There is no place like home _ Rome, via del Mandrione 347, roma 2021 ph Ilaria Lagioia

Veniamo a questa nuova edizione. Quali sono le sue caratteristiche? Partiamo ovviamente dallo spazio…

«La VI edizione si è svolta in un grande edificio sito in via del Mandrione, ex fabbrica del Chinotto Neri e più recentemente sede di una storica palestra di pugilato “Body Fight” dei fratelli Liberati (tra le varie leggende di quartiere si vocifera che anche Mike Tyson era stato lì!). L’ingresso da Porta Furba immette in una dimensione altra rispetto al caos della Tuscolana; caratterizzato da una conturbante bellezza e da un sottobosco stratificato. Teso tra due linee di tensione: la ferrovia e l’antico acquedotto romano, lo spazio ampio oltre 2000mq tra interno ed esterno era in disuso da pochi anni. Dotato di ampie vetrate, lo spazio architettonico ha sin da subito stabilito una grande relazione con il fuori, appunto molto presente all’interno. Gli artisti hanno lavorato interpretando liberamente lo spazio, la struttura, la sua storia passata e recente. Non dimentichiamo che Pier Paolo Pasolini a pochi metri di distanza ha girato alcune scene della sua ultima pellicola, e ancora che quel tratto di via del Manddrione dal 1943 era la via delle prostitute e poi delle baracche e di altre storie più recenti…».

Chi sono gli artisti invitati e con quale criterio li hai scelti?

«Gli artisti invitati sono 40: Sonia Andresano, Josè Angelino, Elena Bellantoni, Paolo Canevari, Stefano Canto, Simona Caramelli, Eleonora Cerri Pecorella, Alessandro Cicoria, Christophe Constantin, Giovanni De Cataldo, Federica Di Carlo, Stanislao Di Giugno, Federica Di Pietrantonio, Marco Eusepi, Marco Fedele di Catrano, Roberta Folliero, Shay Frisch, Alessandro Giannì, Luca Grimaldi, Felice Levini, H. H. Lim, Monica Lundy, Davide Manuli, Diego Miguel Mirabella, Alberto Montorfano, Lulù Nuti, Giorgio Orbi, Luca Maria Patella, Nicola Pecoraro, Alessandro Piangiamore, Donato Piccolo, Cesare Pietroiusti, Giuseppe Pietroniro, Alfredo Pirri / Polisonum, Daniele Puppi, Marco Raparelli, Andrea Salvino, Alessandro Sarra, Gabriele Silli, Donatella Spaziani. Sono tutti legati a Roma. Infatti quest’ultimo appuntamento in particolare è stato dedicato a Roma: There is no place like Rome! La scelta è stata fatta seguendo un criterio trasversale per generazione, come sempre accade per il progetto, ma largo spazio è stato dato ai più giovani (se ancora così vogliamo chiamare i nati negli anni 80), molti invitati dai nuovi spazi indipendenti di cui tanto si è parlato e si parla, della scena romana. Il criterio, ampio, ha seguito le logiche del luogo e si è orientato verso un tipo di linguaggio capace di abbracciare lo spazio con opere ad hoc. Lo scopo è stato quello di restituire il panorama di una scena artistica complessa e articolata, nella mia visione radicale e germinativa».

Gabriele Silli, There is no place like home _ Rome, via del Mandrione 347, roma 2021 ph Ilaria Lagioia

Gli artisti partecipanti sono tutti legati a Roma in quanto città d’elezione e, vari per linguaggio e generazione. Quale tipo di racconto emerge sul loro legame con la Città Eterna?

«Come dicevo prima non essendoci mai una tematica a priori, la lettura mi sento sempre di farla a posteriori: dettata dalle opere che sono scaturite dalla costruzione della mostra. Direi che il racconto venuto fuori è vario, insolubile. Potrei descriverlo attraverso un elenco di parole pensando alle opere degli artisti: ineffabile, tagliente, pungente, viscerale, osceno, poetico, invisibile, ironico e tragico».

Da più parti si parla ormai di Roma anche come la città del contemporaneo in Italia. Cosa ne pensi?

«Roma finalmente ha iniziato a osservare se stessa e a tentare una narrazione. Il recente vissuto di “reclusione” nel proprio territorio ha forse agevolato e accelerato un processo di lettura più approfondita, dove lo sguardo ha potuto posarsi con più profondità a raggio stretto. Sì, a Roma ci sono (e ci sono sempre stati) artisti che l’hanno scelta come luogo in cui vivere e lavorare. Artisti straordinari. Roma conserva, nel suo essere fuori da un sistema strutturato, un’autenticità rara e potente».

Giovanni De Cataldo, There is no place like home _ Rome, via del Mandrione 347, roma 2021 ph Ilaria Lagioia

Gli artisti da te convocati in mostra sono tutti romani di nascita o d’adozione. Cosa ne pensi della loro valorizzazione all’interno delle rassegne e delle istituzioni della Capitale?

«Partendo dal presupposto che sono gli artisti il vero fulcro del sistema arte contemporanea, direi che Roma nel suo essere città “imperiale e di quartiere” contiene in grembo una fauna fertile e rigogliosa. Non vedo nelle Istituzioni una volontà di valorizzazione della scena romana. Né in termini poetici, né in termini di strategia lungimirante. Manca la visione? Ci vuole più coraggio? Le iniziative sporadiche non sembrano scaturire da una credenza reale nel sostenere il mondo dell’arte romano. Gli attivatori sono per lo più i contesti indipendenti no profit o le piccole Fondazioni».

Un bilancio della VI edizione in via del Mandrione?

«Per me positivo, ma forse sono troppo di parte! In generale in 65 ore ci sono stati tantissimi visitatori, di giorno e di notte. Stiamo lavorando a un libro, strumento fondamentale per raccontare questo tipo di progetto che si consuma in poche ore. Oltre alle opere in mostra, hanno contribuito ad attivare la tensione della dimensione temporale diverse perfomances, come quella di Donatella Spaziani che ha coinvolto diversi poeti della scena romana, o Lulù Nuti che ha lavorato alla sua installazione notturna da mezzanotte all’alba per due notti consecutive, e poi Paolo Canevari, Sonia Andresano e Cesare Pietroiusti. Inoltre, alcune azioni sono avvenute a mostra conclusa: Gabriele Silli con “Fine della messa in scena e anticipo della fine” e Stefano Canto: ambedue distruggendo l’opera in chiave poetica».

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