09 marzo 2021

Dalla parte del drago #5: Ri-guarda l’opera

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Dettagli, sguardi, ricordi e immaginazioni: episodi dove alcune storie dell'arte non si possono cogliere guardando, perché non sono nell’opera ma la "riguardano"

Édouard Manet, Musica alle Tuileries, 1862, Olio su tela, 76,2×118,1 cm

I quadri si guardano con gli occhi e non con gli orecchi, è sempre bene ricordare. E che “guardare bisogna” lo scriveva in chiaro anche il grande Bernard Berenson, ribadendolo in una nota prefazione scritta dalla sua villa fiorentina per una sua riedizione. Sarà che lui prese un granchio clamoroso a fine secolo inventandosi addirittura un artista chiamato Amico di Sandro, al quale ricondusse certe opere che altrimenti non gli sembravano trovar mano. Io pure guardo con insistenza certi dipinti e scovo alcuni dettagli che ricordo d’aver letto, mentre altri li immagino anche senza testo. Ma alcune storie non si possono cogliere guardando, perché non sono nell’opera ma la riguardano. Ci sono due dipinti di Manet, ad esempio, che stanno in posti diversi: per sei anni rimangono alla National Gallery di Londra, per gli altri sei alla Galleria Hugh Lane di Dublino. La doppia locazione, a dir poco singolare, fa seguito alla tragica vicenda di una grande nave, la Lusitania, affondata in mare aperto da un sottomarino tedesco. A bordo del transatlantico c’era il brillante collezionista Hugh Lane, al tempo trentanovenne, e che dieci anni prima aveva comprato a Londra due dipinti di Édouard Manet: uno era Musica alle Tuileries, l’altro il Ritratto di Eva Gonzalès. Nei testamenti ritrovati di Lane, comparvero due volontà divergenti e contrastanti.

Édouard Manet, Ritratto di Eva Gonzales, 1870, Pastello su tela, 191×133 cm

Indicavano di lasciare i dipinti alla National Gallery di Londra ma richiedevano la fondazione di una galleria d’arte moderna in Irlanda, alla quale sarebbe stata destinata la sua ricchissima raccolta. La questione fortunatamente si risolse e i dipinti che cambiano sede nascondono ora una storia in più da raccontare, mentre io continuo su problemi di condivisione. E questa volta non si tratta di un’opera ma di una fanciulla, che pomposamente vestita siede sull’altalena, gaia e felice di farsi dondolare dal marito alle spalle. Ai suoi piedi, nascosto tra i fiori, c’è però il suo amante, che spia bramoso sotto la sottana e si gode uno spettacolo decisamente più attraente. Tra una spinta e l’altra la protagonista perde persino una scarpetta, così da incrementare ancor più la malizia.

Jean-Honoré Fragonard, L’altalena, 1767, Olio su tela, 81×64,2 cm

L’opera doveva essere eseguita dal pittore Doyen su richiesta del barone de Saint-Julien, e il barone stesso avrebbe dovuto essere ritratto come ammiratore nascosto della protagonista, che veniva sospinta da un vescovo. Doyen s’infastidì per la richiesta e propose di far eseguire il tema al collega Jean-Honoré Fragonard, che scelse però di sostituire con un ingenuo marito l’inappropriato religioso. E ne nacque un capolavoro. Il Trittico di Danzica di Hans Memling presenta a sinistra il donatore Angelo di Jacopo Tani inginocchiato sotto la statua della Madonna con il bambino, mentre sua moglie Caterina si ritrova nella stessa posizione sotto la scultura del San Michele. Quando è aperto il trittico mostra poi il Giudizio Universale al centro, con Gesù sull’arcobaleno ripreso dal maestro Rogier Van Der Weyden, a sinistra l’Inferno e a destra il Paradiso. Al tempo il Tani era a Bruges come direttore del Banco Medici e commissionò l’incredibile opera al pittore con l’intenzione di farla spedire a Firenze. E come da accordi l’opera fu caricata su una nave diretta verso la meta indicata. Al largo della Manica fu però assalita dal corsaro di Danzica Paul Benecke che fece razzia totale e donò il Trittico alla sua città che lo espose felicemente nella cattedrale.

Hans Memling, Trittico di Danzica, 1467-1473 circa, Olio su tavola, 223,5×306 cm

Il trittico divenne così uno dei modelli fondamentali per tutta la pittura dell’area baltica e Paul Benecke il Robin Hood dell’arte moderna. E infine arriviamo alla Marina dell’Approdo, di Carlo Carrà. Una barca a vela sta ferma in mare, mentre una seconda blu e rossa è ormeggiata sulla spiaggia. Una terza ancora compare in acqua lungo il muro e sta per uscire dalla nostra visuale. I colori sono accesi, nulla è definito, ma la visione fa star bene e suggerisce silenzio o voglia di pensare. L’Approdo è stato anche uno dei più longevi e noti programmi culturali della televisione italiana e la prima puntata, con il sottotitolo “settimanale di lettere e arti”, andò in onda sul canale nazionale all’inizio di febbraio del 1963. E andando bene a guardare nel comitato direttivo, legato alla rivista omonima, comparivano, tra gli altri, Roberto Longhi, Emilio Cecchi, Riccardo Bacchelli e Giuseppe Ungaretti. Ovviamente il quadro di Carrà fu la sigla visiva del programma, con gran piacere di chi la ri-guarda.

Carlo Carrà, La Marina dell’Approdo, 1952, Olio su tela, 40×50 cm

Nicola Mafessoni è gallerista (Loom Gallery, Milano) e amante di libri (ben scritti). Convinto che l’arte sia sempre concettuale, tira le fila del suo studiare. E scrive per ricordarle.
IG: dallapartedel_drago

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