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Le Dejeuner sur l’herbe di Édouard Manet è sotto processo per oscenità
Arte moderna
Il 1863 rappresenta una di quelle date che nella storia dell’arte fungono da vero e proprio spartiacque: c’è un prima e un dopo. Quando Édouard Manet presentò Le Déjeuner sur l’herbe al Salon des Refusés di Parigi destò uno scandalo tale da aprire una breccia, da sovvertire in qualche modo la traiettoria della tradizione per segnare una nuova strada. Cosa sarebbe successo se Manet e la sua musa fossero stati trascinati in un tribunale per offesa alla morale pubblica e al buon costume? Oggi, il Museo d’Orsay riapre il dibattito, a oltre un secolo e mezzo di distanza, in una forma insolita: rispondendo a questo grande “what if” della storia con un “processo farsa”, svoltosi nell’auditorium del Musée d’Orsay – che custodisce l’opera – e pensato in particolare per un pubblico giovane, dai 18 ai 25 anni. A ideare l’evento è stato Sylvain Amic, ex presidente del Musée d’Orsay e del Musée de l’Orangerie, scomparso lo scorso agosto.
Alla sbarra, gli imputati d’eccezione: Édouard Manet e la sua modella, Victorine Meurent, interpretati da studenti della Fédération française de Débat et d’Éloquence, un’associazione il cui scopo è promuovere la lingua e la cultura francese attraverso la pratica del dibattito e dell’oratoria. A guidare l’udienza, una giudice in carica, Valérie Dervieux, affiancata da tre veri avvocati, uno dei quali nelle vesti di pubblico ministero.
«Non è una lezione performativa, ci sono veri avvocati che perorano la causa a favore e contro gli imputati», ha affermato la vicedirettrice Virginie Donzeaud, che lavorava con Amic a questo progetto dallo scorso febbraio. «Volevamo collaborare con la Fondation des Femmes per affrontare importanti temi sociali, in particolare il femminismo». E se, riprendendo le parole della vicedirettrice, «C’è qualcosa in un processo simulato che è allo stesso tempo coinvolgente e attraente per il pubblico più giovane», l’approcciò è stato sicuramente diverso rispetto a quello adottato da altre istituzioni che si sono misurate con questo tipo di esperienza, quali ad esempio Versailles e il Mucem di Marsiglia, spingendosi a un nuovo livello di plausibilità della ricostruzione di un possibile assetto giuridico.

«L’idea di un processo simulato è al tempo stesso interessante e arricchente, perché permette all’arte e al diritto, due mondi a prima vista apparentemente opposti, di entrare in dialogo», ha affermato Julie de Lassus Saint Génies, avvocatessa ed esperta di proprietà intellettuale presente all’evento. Si tratta di due mondi «Solo apparentemente opposti, tuttavia, perché le controversie sulla libertà di espressione e, per estensione, sulla creazione artistica sono sempre state numerose».
Testimoni per la difesa: Baudelaire, Zola e Courbet
A difesa dell’artista sono intervenuti, attraverso le voci degli studenti, alcuni dei suoi più celebri sostenitori. Émile Zola e Gustave Courbet hanno tuonato contro la censura artistica e le ingerenze del potere sulla creazione, mentre l’interpretazione vincente è stata quella dello studente che impersonava Charles Baudelaire. Mentre il testo di difesa dello stesso Manet è stato rivisto dalla specialista e curatrice di Manet Isolde Pludermacher, per garantire un’accuratezza storica e artistica.
D’altro canto, il testo di Zola ha colorato di umorismo il processo e alleggerito l’ambiente, con un J’accuse assolutamente anacronistico, dato che la lettera aperta in difesa del capitano Alfred Dreyfus contro la corruzione e l’antisemitismo dell’esercito e del governo francese venne scritta solamente nel 1898, più di 25 anni dopo lo scandalo suscitato dall’esposizione. Una libertà alla quale lo stesso pubblico ministero ha risposto con un Je récuse – “Io sfido” – nella sua dichiarazione di apertura.
Un processo al femminile
Le figure femminili, spesso marginalizzate nei racconti storici, hanno trovato qui uno spazio maggiore grazie all’introduzione del personaggio di Suzanne Leenhoff, compagna di Manet, che ha bilanciato la rappresentazione di genere per non lasciare che Victorine Meurent fosse l’unica donna a presenziare: una scelta precisa, che ha sicuramente permesso di arricchire le visioni sul caso.

Carla Tomé, responsabile della programmazione culturale del Musée d’Orsay, ha affermato che la parte più difficile nell’ideare l’evento è stata proprio questa: «All’inizio erano soprattutto le ragazze a voler partecipare. Avere solo donne a rappresentare una maggioranza di uomini sarebbe stato un po’ eccessivo». La stessa giudice Dervieux è intervenuta ripetutamente sottolineando l’ironia di una donna che giudica un’altra donna: «A pensarci bene, ci vorranno diversi anni prima che una donna possa diventare magistrato».
Le Dejeuner di Manet: un dibattito senza tempo
Ma cosa c’è davvero di così scandaloso, nell’opera? In Le Déjeuner sur l’herbe sono rappresentate quattro figure: due uomini e una donna che, al centro della scena, consumano una colazione immersi nel verde, mentre in secondo piano compare un altro personaggio femminile, semi svestito. È però la nudità della protagonista a destare scandalo, una nudità che per la prima volta non è legata al mito e non ha alcun pretesto, se non l’aggravante degli abiti contemporanei degli uomini che ancor di più calano la scena in una Parigi quanto mai vicina al 1863.
Dominata da quel «Celeste dell’acqua che svapora nell’atmosfera colorata del verde degli alberi», usando le parole di Argan, l’opera generò un vero e proprio scandalo, anche se Zola riporta che «Da ogni parte si sentiva il respiro ansimante di corpulenti gentiluomini e il rauco sibilo di signori allampanati e su tutto dominavano le stupide risatine flautate delle donne».

Il verdetto
Il pubblico ministero ha definito Manet «Il primo artista clickbait», accusandolo di «Manet-pulazione» e di aver scioccato la borghesia parigina con la stessa strategia di chi oggi usa i social per provocare reazioni. La difesa, invece, ha ribaltato l’accusa: la nudità di Victorine Meurent non sarebbe scandalo ma rivendicazione di libertà. «Il corpo femminile non è un’offesa, è un linguaggio», ha affermato la giovane interprete della modella, difesa da un’avvocata che ha sottolineato come nel dipinto il volto sia riconoscibile ma non necessariamente il corpo.
Dopo una deliberazione, il giudice Dervieux ha emesso il suo salomonico verdetto, intriso di un’ironia non casuale. Ha riconosciuto che l’oltraggio alla corte era stato effettivamente provato ma la sua condanna è suonata come un’assoluzione: ha intimato a Manet di «Continuare a dipingere!». Una sentenza che, in un colpo solo, ha riconosciuto la capacità dell’arte di turbare l’ordine costituito e ne ha anche sancito il diritto inalienabile a farlo.














