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Una cattedrale nel deserto ma in alto mare, in tutti i sensi. A Grado, le porte del Museo di Archeologia subacquea dell’Alto Adriatico rimangono ancora chiuse, a più di vent’anni dalla costruzione dell’edificio. Secondo quanto appreso da fonti locali, è scaduto pochi giorni fa il termine comunicato dall’amministrazione comunale della città del Friuli Venezia Giulia al Ministero dei Beni Culturali, per restituire la struttura ricevuta in concessione gratuita. Non avendo ricevuto risposta, il Comune intenterà una causa in sede civile, per mezzo dello studio legale De Benedictis.
La storia ebbe inizio nel 1992, quando il Comune di Grado affidò al Mibac, in comodato gratuito per 99 anni, rinnovabili per altri 99, l’edificio della ex scuola Scaramuzza, sul Lungomare Nazario Sauro. Obiettivo, la realizzazione di un Museo nazionale di archeologia subacquea, che gli abitanti di Grado chiamarono subito Museo del mare. L’idea veniva ancora prima, nel 1986, quando il pescatore Agostino Formentin rinvenne alcuni frammenti di anfore al largo delle coste gradesi, dando il là alla scoperta del relitto di una grande nave del III secolo d.C., recuperata nel corso di sei campagne di scavo, l’ultima delle quali nel 1993.
I reperti della Iulia Felix avrebbero dovuto essere esposti nel nuovo museo d’archeologia, dove sarebbero stati allestiti anche una biblioteca specialistica di archeologia subacquea e navale, una sala riunioni, un archivio dei dati archeologici delle aree umido-subacquee del Friuli Venezia Giulia, un’aula per il primo trattamento dei reperti umido/subacquei recuperati, un magazzino, uffici, una foresteria per gli studiosi e gli studenti. Secondo uno degli interventi dell’accordo di programma quadro in materia di beni culturali per il territorio della Regione Friuli Venezia Giulia, stipulato tra Ministero dell’Economia e delle Finanze, Mibac e Regione del 2000, vennero stanziati ingenti fondi statali e CIPE per l’adeguamento dell’edificio scolastico alla funzione museale.
Insomma, sembrava dover andare tutto a posto, anche se con tempi un po’ lunghi ma le cose iniziarono subito a farsi complicate. Prima, come ricostruito dal Fatto Quotidiano, una serie di ripensamenti progettuali del Mibac, poi l’aumento del dei costi dei lavori, fino a raggiungere i 10 milioni di euro. E, intanto, il deterioramento dello scafo della nave, sistemato provvisoriamente in un locale esterno all’edificio, al coperto ma senza impianti di climatizzazione.
Si arriva comunque, nel 2014, all’inaugurazione in grande stile, alla presenza del Soprintendente per i beni archeologici del FVG, Luigi Fozzati, del Direttore del Museo e del parco archeologico subacqueo del FVG, Domenico Marino, del sindaco di Grado, Edoardo Maricchio, del consigliere provinciale del Pd, Elisabetta Medeot, oltre che di Capitaneria di Porto, Carabinieri, Guardia di Finanza e di monsignor Armando Zorzin. A – poco – onor del vero, il museo era stato già parzialmente aperto nel 2008, per la presentazione della mostra “Terre di mare”, dedicata al relitto di Grado.
Ma sul sito del Ministero, alla pagina dedicata al Museo, si leggono poche e laconiche righe: «La nave, collocata la piano terra non è ancora visitabile. Giorni e orario apertura: chiuso al pubblico; Prenotazione: Nessuna». Eppure, nella stessa pagina è anche indicato un direttore, Luca Caburlotto, che è anche il direttore del Polo Museale del Friuli Venezia.
«Abbiamo dato un tempo molto ampio alla Sovrintendenza per rispondere alle nostre richieste. Il progetto è rimasto bloccato a causa di una serie incredibile di inadempienze. Ciò che è peggio, nessuno vuole assumersi alcuna responsabilità. A questo punto è giusto che l’edificio concesso dalla nostra comunità in comodato gratuito ci sia restituito», ha dichiarato il sindaco Dario Raguna al settimanale Il Friuli.
A gennaio 2019, il Comune di Grado ha inviato una diffida al Ministero dei Beni Culturali ma, scaduti i termini, non è stata intrapresa alcuna azione concreta. Così il Comune considererà sciolto il contratto di concessione e riotterrà l’edificio, come stabilito dalla legge.
Per il momento, rimane solo un grande edificio dalle forme squadrate, con gli inserti in vetro e acciaio tipici dell’architettura pubblica moderna ma l’unica indicazione della sua funzione è fornita dalla targhe, mentre le erbacce proliferano nei cortili.
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