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Il cinema secondo Pietro Marcello: intervista al regista di Duse
Cinema
di Oscar Sanchez e Chiara Zenzani
In Duse, Pietro Marcello rilegge Eleonora Duse come figura di confine tra gloria e vulnerabilità, memoria e modernità. In questa intervista, il regista riflette sul ruolo dell’artista oggi, sul ritorno all’archivio e sulla necessità di un cinema che educa e resiste.
Buongiorno, Pietro. Puoi raccontarci un po’ dell’inizio del film e della scena con i soldatini?
«Quella è la parte più semplice ed economica del film. Sono cose che avevo già realizzato in passato: avevo dei soldatini e un laboratorio con materiali che utilizzo per altri lavori. Li ho inseriti qui come introduzione, ma erano già stati usati in un film precedente, che sto ancora montando con materiale d’archivio. Non è stato un problema economico, anzi, mi sembrava molto artistico, quasi come un’installazione».
Questo film ha un budget più grande rispetto ai tuoi precedenti?
«Sì, questo è un film più strutturato, con altri partner produttivi. È diverso da Martin Eden, Bella e perduta o Scarlatte. Non avevo molto spazio per la sperimentazione come nei miei lavori precedenti».
Da dove nasce l’idea di fare un film su Eleonora Duse?
«Inizialmente dovevo realizzare un film su Carlo Pisacane, ma non sono riuscito a montarlo. Poi ho conosciuto persone che lavoravano su Eleonora Duse e sono rimasto affascinato da lei. Ho subito pensato a Valeria Bruni Tedeschi per interpretarla. Non mi interessava fare un biopic, ma raccontare lo spirito della fine di un’era, la decadenza e la fragilità della vita negli ultimi anni».
Nel film c’è anche un aspetto politico?
«Sì, ma prima di tutto si tratta del rapporto tra umano e divino. Un artista può elevarsi attraverso il divino, ma rimane umano e fragile. La storia dell’arte è sempre stata legata al potere: il potere di appropriarsi dei talenti degli artisti. Mi interessava raccontare gli ultimi anni di Eleonora Duse, perché il cinema tende a concentrarsi sui vincitori, mentre io sono affascinato dai vinti».

Eleonora Duse è stata comunque un’icona del teatro.
«Assolutamente. Ha trasformato il teatro italiano, influenzando Strasberg, Stravinsky e molti altri. Ma ciò che mi interessava era raccontare la sua vita nuda, senza filtri, non il momento di massimo successo. La sua forza e fragilità negli ultimi anni erano ciò che volevo esplorare».
Il film affronta anche la morte?
«Sì, la morte è parte integrante della vita. Il film racconta le pulsioni di vita e di morte, e la certezza della fine. La vita e la morte coesistono in ogni istante, e questo era centrale nella storia che volevo narrare».
Come hai utilizzato l’archivio nel film?
«L’archivio è fondamentale. Ad esempio, c’è il treno del Milite Ignoto, un simbolo di pace dopo la Prima Guerra Mondiale, poi mistificato dal fascismo. Il parallelo tra il viaggio del Milite Ignoto e quello di Eleonora Duse è uno degli elementi chiave del film. L’archivio ha una forza che la finzione non può replicare: è impossibile ricreare fedelmente la realtà storica, e questo lo rende unico».
Come hai scelto la musica?
«Ho scelto composizioni di Mari Piero, un musicista veneziano legato all’epoca della Duse, e ho inserito anche musica elettronica, che utilizzo spesso nei miei film. La musica riflette il mondo del film e crea continuità con le altre opere che ho realizzato, come Martin Eden, Bello e perduto o La bocca del lupo».
Perché parlare di Pinocchio nel film?
«Rappresenta la passione della Duse per il teatro e la recitazione, che la possiede completamente. Anche quando decide di ritirarsi, non può sottrarsi alla recitazione, e questo conflitto con la figlia rappresenta il passaggio tra vecchio e nuovo, tra tradizione e modernità».
Il film ha un legame con il presente?
«Sì, anche se la storia è ambientata cento anni fa, ci sono molte somiglianze con oggi. Le epoche intermedie, le difficoltà di adattarsi ai cambiamenti, le disuguaglianze sociali: sono temi universali e attuali. Il passato e il presente si rispecchiano, e la storia mostra che l’uomo non cambia facilmente».
Ci sono state scene particolarmente difficili da girare?
«Ho lavorato in uno stato di grazia con Valeria Bruni Tedeschi. Ogni giorno era un’epifania, divertente e stimolante. Anche le scene più complesse, come quella in cui aggredisce la giovane attrice, sono state affrontate con professionalità e collaborazione da tutti gli attori».
Qual è stato il primo film che hai visto e che ti ha colpito?
«Probabilmente L’Atalante di Jean Vigo. Anche Fantasmi a Roma di Pietrangeli e tanti altri. Ho imparato a fare cinema guardando i film degli altri: il metodo è più importante dei modelli».
La tua serie è stata girata in digitale o in pellicola?
«In pellicola 35 e 16 mm. Mi piace la chimica della pellicola e l’attesa dei girati, anche se non sono contrario al digitale e credo che in futuro realizzerò film digitali».

Il cinema contemporaneo e l’arte sono ancora importanti per te?
«Sì, ma in questo momento voglio tornare a fare documentari e cinema radicale, più vicino alla gente. Mi interessa insegnare ai giovani, trasmettere ciò che ho imparato e dedicarmi all’educazione, perché credo che sia più importante della produzione cinematografica fine a se stessa».
Cosa consiglieresti ai giovani che vogliono fare cinema?
«L’importante non è cercare modelli, ma capire il metodo. Bisogna essere autocritici e concentrarsi sulle vere necessità. Dedicarsi ai giovani, educarli, dare loro strumenti per immaginare un mondo diverso: questo è ciò che oggi ha più valore».
Progetti futuri?
«Sto lavorando a un film d’archivio sul tema della guerra. Sarà un progetto didattico, con un budget limitato, ma estremo nel linguaggio, e probabilmente tornerò anche ai reportage».
E, infine, di che colore è la tua vita?
«È complessa, a volte difficile, ma piena di sfumature: celestina come il mare, rossa come il sangue, bianca come le cali. Siamo tutti chiaroscuri».














