silvia

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Base

Tipo

Persona

Name

silvia

Provincia

Ravenna

Regione

Emilia Romagna

Nazione

Italia

Sesso

Femmina

Sito web

digilander.libero.it/irene68/imgSilviaBell.htm

Occupazione

0

Titolo di studio

0

Descrizione

Silvia Bellettini inizia il suo cammino artistico tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta. Studentessa del corso di scultura a Ravenna, all’inizio degli anni novanta decide di conoscere altre città e realtà, e si trasferisce dall’Accademia di Belle di Ravenna a quella di Brera, a Milano. All’inizio l’impatto non è dei migliori, cambiare città per chi ha sempre vissuto nella bizantina Ravenna, significa cambiare tutto, in modo particolare se la meta scelta è Milano che negli slogan pubblicitari di quegli anni è la “Milano da bere”(ma ancora per poco tempo). Silvia mostra di possedere sin da subito temperamento curioso e adattabile, non tanto al ritmo frenetico della città, quanto agli stimoli culturali e alle novità lì presenti. Milano per Silvia diventa così città da esperire, luogo delle conoscenze, dei contatti artistici. Dopo aver conseguito il Diploma con una tesi sulla “Transavanguardia”, entra in contatto con Martina Corgnati, già sua docente (a Ravenna) di “metodologia della critica delle arti”, e diviene sua collaboratrice. In quel periodo cammina lesta e a piedi, per mostre e gallerie d’arte contemporanea, cura la grafica di un catalogo d’arte e l’allestimento di diverse mostre di pittura e conosce artisti del calibro di Bargoni, Bartolini, Canonico. Un inizio niente male, poi il rientro nella Ravenna conosciuta e insieme il lavoro di mosaicista, e la ricerca di una propria autonomia, artistica e non solo. Siamo nel 1995, qui inizia la ricerca individuale e pittorica della nostra artista. Sono gli anni della nuova ondata soft del concettualismo, anni in cui la pittura, dopo le glorie degli ottanta, passa in secondo piano, a favore di fotografia ed altri medium freddi, come le installazioni, il video, la digital art. Ma Bellettini non può e non vuole dimenticare l’arte che ha conosciuto e studiato, gli artisti con cui ha parlato e le opere che ha visto. Ha ancora in mente il gesto verticale di Bargoni, i suoi dipinti luminosi e istintivi, il segno infantile e selvaggio di Chia. Così inizia a dipingere in solitudine, con fervore e sentimento, lasciandosi trasportare dalle correnti (che non sono i “trend” dell’arte), e dalla passione per le immagini che le è propria. Le opere che realizza nel 1994-95, contengono messaggi raggiungibili soltanto seguendo il filo delle emozioni che ha condotto la sua mente ad uscire dai tracciati e dalle linee con i colori ed i materiali, e non si tratta mai di lavori eseguiti su commissione. Anzi, l’artista ci tiene a specificare che, anche imponendoselo, non riuscirebbe a realizzare nulla commissionatogli da altri, proprio per la precarietà del suo lavoro, che non è mai la realizzazione di un progetto, ma il risultato di un agire per gradi lasciandosi guidare dagli eventi. Per l’artista la prassi è impeto, azione veloce che si realizza in seguito alle esperienze.
Bellettini prepara i suoi supporti assemblando i legni e preparando le tele con colle. Ogni azione è legata ad un pensiero e ad un momento particolare della sua vita.
Così il nero è tranquillità rassicurante e il blu più cupo è il colore della riflessione. In ogni sua immagine i segni ed i colori vengono utilizzati in modo differente, come la natura che l’artista ama, ci ha abituato a non dare mai nulla per scontato, sorprendendoci continuamente con i suoi imprevisti. E’ una conseguenza che i percorsi seguano ogni volta strade insolite. In questo senso le sue opere non sono mai l’esito di una ricerca unilaterale.
Ma l’artista è anche una frequentatrice assidua di cinema d’essài, e questo suo amore per il cinema d’autore traspare nelle inquadrature dei suoi dipinti. Sono grandi finestre su dettagli d’immagini. Nei lavori del 1997-99, le icone erano ben nascoste, “misteri” per chi voleva addentrarsi nei flussi della sua pittura ancora così materica, stesa a spatola, ora invece, le immagini affiorano in superficie, ci seguono (le gambe che camminano verso di noi), ci voltano le spalle (la schiena). In certi casi i corpi sono ben delineati, (le scarpe), oppure si mostrano a noi come ectoplasmi, visibili per incanto grazie alla materia leggera di cui sono fatti (carta velina, dipinta e lavorata con le mani e fatta aderire ai supporti con colla).
Una delle ultime opere Il nutrimento delle proprie esperienze sembra ritrarre due gomiti sporgenti accostati ad una colonna vertebrale che cammina nervosamente. Dall’alto di questo quadro nero, pende un filo bianco, e la schiena, dalla consistenza rocciosa, si erge grazie al filo, perpendicolare al collo, alla colonna, alla vita degli individui. Bellettini rappresenta l’individuo in extremis, appeso alle proprie esperienze, per forza di cose. Noi possiamo guardare l’estremità del filo, su cui l’artista ha messo un piccolissimo specchio rotondo, e riconoscerci, vedere i nostri occhi, e poco più. Di fianco all’individuo dei grandi triangoli neri puntano il loro apice verso l’individuo. Per l’artista sono energie che si riflettono contro. Un’opera dal significato cosmico questa. Come ho scritto, conosco l’artista da molti anni, e so del suo percorso per arrivare qui, a queste ultime opere meditate, e realizzate in un soffio di tempo. Questi lavori hanno qualcosa di orientale, esprimono l’equilibrio abissale della consapevolezza. Ma per l’artista l’unica sicurezza certa è che nulla è per sempre e tutto è precario ed inevitabile. Possiamo soltanto vedere nei minuscoli specchi i nostri occhi ad aiutarci a tenere eretta la colonna fisica e mentale, che alimentata dalle esperienze, sostiene il nostro sguardo. Allora “la precarietà delle cose” è una condizione esistenziale e si riflette verso di noi, dai numerosi specchi che l’artista inserisce nei suoi quadri.
Nelle ultime opere notiamo l’equilibrio o la mancanza totale di esso, come in “Chi dorme non piglia pesci”, nel gesto pittorico che come una sciabola fende il dipinto in due parti, una quieta, pacata, l’altra come voragine nella tela.
Alcune opere mostrano la “fissazione” di Bellettini per la spirale, forma che si è fatta tatuare sulla gamba sinistra, (il cui significato è anche sequenza di eventi in stretta relazione causale), o per il labirinto, (luogo, edificio, intreccio di strade dove è difficile orizzontarsi e intrico, groviglio, confusione, viluppo). Come il protagonista del film Memento, l’artista raffigura (spesso aiutandosi con fotografie) le varianti dei pensieri che l’assillano. In questo mondo precario, di stabile e duraturo, per l’artista restano le ossessioni, con le loro forme e andamenti, rappresentabili in molti modi. Raffigurarle serve a ricordarci cosa fa parte di noi e cosa non ci appartiene, e le scritte nei dipinti svolgono la stessa funzione.
Nel giro di cinque anni la sua ricerca ha preferito la semplificazione in relazione alla stratificazione dei segni e delle immagini. L’astrazione di Bellettini è sia luminosa, che solare:
può avere i colori dell’estate, e ricordarci con tanti quadrati colorati, gli acquerelli dipinti a Tunisi da Paul Klee, oppure può essere di natura scura e notturna, come molte opere di Bargoni.
L’arte di Bellettini si mostra così come un’arte che cresce di continuo, Va per la sua strada, con le gambe fasciate da una stoffa color fucsia e le scarpe da tennis, senza paura di esprimere leggerezza e positività, o al contrario si veste di nero e non ci mostra alcun spiraglio di luce, eccetto il piccolo specchio all’altezza dei nostri occhi.

di Loretta Zaganelli