01 novembre 2025

Danziamo, altrimenti siamo perduti: report da Visavì Gorizia Dance Festival

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Compagnie internazionali, debutti e anteprime, al Visavì Gorizia Dance Festival 2025: le nostre impressioni, negli spettacoli di Konstantinos Rigos, Akram Khan e Sarah Baltzinger e Isaiah Wilson

Golden Age, Giovanni Chiarot

Molti sono stati gli spettacoli internazionali, tra debutti nazionali e anteprime, che si sono visti, dal 9 al 19 ottobre, al Visavì Gorizia Dance Festival nell’anno di Nova Gorica e Gorizia Capitale Europea della Cultura 2025, le due città transfrontaliere sedi della manifestazione all’insegna della danza contemporanea. Chiusura in grande stile con la prima nazionale di Golden Age del greco Konstantinos Rigos, coreografo e direttore del GNOballet, Greek National Opera ballet, a pochi mesi dal debutto mondiale al Belgrade Dance Festival (lo spettacolo sarà l’1 novembre al Teatro Duse di Bologna).

“Danziamo, danziamo, altrimenti siamo perduti”. Questa frase iconica di Pina Bausch, nella quale sentiamo vibrare tutta l’angoscia e la speranza dell’esistenza, mi è ritornata in mente alla fine dello spettacolo di Rigos, un parallelismo a ricordarci che, poiché non possiamo sfuggire a ciò che siamo, dobbiamo continuare a danzare per esistere. Come sembra voler dire Rigos rappresentando i suoi 35 anni di attività artistica inquieta, sovversiva, appassionata.

Golden Age, Giovanni Chiarot

Visivamente e tematicamente stratificato, tutto lo spettacolo è una danza sfrenata, ricca, variegata, una festa intima e aperta che ripercorre alcuni momenti salienti della vita del prolifico coreografo, la sua formazione influenzata da una moltitudine di artisti e visioni: quella “età dell’oro” contrassegnata dalla estrema vitalità di una generazione, dalla nostalgia di un passato denso di creatività e di eventi liberatori.

Dentro una scatola scenica delimitata da un tendaggio dorato e da uno schermo in verticale con scritte e immagini digitali, si susseguono scene e azioni sempre diverse con oggetti – palme, un pupazzo dinosauro che interferisce, una crocifissione, un mantello dorato, e costumi delle più varie fogge – che mutano e si aggiungono a supporto della frenesia delle danze prevalentemente corali, che eleggono, a turno, assoli, coppie, gruppi interscambiabili, tra ironia e sensualità, passi di tango, baci appassionati, scontri, canti e risa, per riflettere sull’amore, sulla fede, sull’arte, sull’esistenza, sul passato e sul futuro.

Golden Age, Giovanni Chiarot

In una commistione di arte visiva e stili coreografici – dal classico al contemporaneo al teatrodanza, dal barocco al musical alla street-dance – che si intrecciano e si interscambiano, il mix è anche musicale: dal sound elettronico che remixa l’aria Addio del passato dalla Traviata di Verdi, a Bizet, a canzoni greche, a brani rock e jazz degli anni ’60 e ’70 come la hit Hotel California degli Eagles, della quale scorre il testo che parla di un luogo attraente ma anche edonistico e auto-distruttivo: “Questo potrebbe essere il Paradiso o l’Inferno”, è una delle frasi della canzone; e un’altra “Alcuni ballano per ricordare, altri per dimenticare”, parole che racchiudono il mondo rappresentato dall’iconoclasta Rigos in questo spettacolo da lui stesso definito “pop metafisico”. Che esplode letteralmente nel finale.

Golden Age, Giovanni Chiarot

Dopo l’enorme scultura (dell’artista Petros Touloudis) scesa dall’alto e sospesa – raffigurante la carcassa di un uccello dalle ali spezzate, ma trasformate in un cuore -,  e la danza struggente di una coppia sotto quel battito, detona un’assordante musica techno con gli strepitosi danzatori, dai fumettistici costumi policromi, che ballano fino allo stordimento lasciando in piedi un solo performer il quale, coprendosi come un Adamo sorpreso nudo, smarrito, in quell’Eden caotico, osservato dal gruppo vicino a lui, sembra interrogarci con le domande di Rigos: “dove siamo adesso? cosa vediamo intorno a noi? a cosa apparteniamo e cosa reclamiamo? cosa è rimasto di vero?”. Uno spettacolo che brucia energia, rompe schemi, e lascia tracce nell’immaginario del nostro tempo frenetico.

Golden Age, Giovanni Chiarot

Tra i debutti più attesi c’era Turning of bones di Akram Khan per la Gauthier Dance//Dance Company Theaterhaus Stuttgart. Per questa creazione, il coreografo e danzatore anglo-bengalese, classe 1974, ha armonizzato, modificandoli, alcuni estratti di suoi precedenti lavori (riconosciamo sequenze da Desh, ItMoi, Jungle Book, Mud of Sorrow, Insirgents) legati al tema del rapporto con la Terra, della vita e della morte, e della ricerca dell’identità.

Turning of bones, ph. Giovanni Chiarot

16 danzatori in gonnelle e pants dalle fogge indiane, coi volti appena segnati di strisce nere, si muovono avendo come cardine una pietra grigia “risvegliata” da terra da due figure in nero: prima un uomo errante arrivato da un mondo lontano e tempestoso, seguìto da una donna (ombra, anima, spirito?) che lo scorge e, per tutto lo spettacolo lo accompagna, lo serra a sé, lo respinge, lo assimila; poi, e in più momenti, la pietra viene maneggiata dal gruppo, è contesa, deposta e ripresa, venerata, come in un rito.

E di rituale si tratta: quello del dissotterramento delle ossa secondo la cerimonia del Famadihana – “la festa del rivoltamento delle ossa” – professata in Madagascar, una tradizione in cui i morti vengono esumati ogni pochi anni e avvolti in nuovi teli di seta per onorarli e danzare con loro. La danza è un vortice di sequenze corali ritmate, pacate, battenti nei piedi e nel gioco di braccia alzate e ai fianchi, che riprendono vagamente le posture della danza kataki, antica danza del nord dell’India.

Tra suoni cupi, tellurici, percussivi, voci vicine o lontane, musiche sacre e cantilene, dolci melodie sopraffatte da cacofonie sonore – partitura sonora del compositore indiano Aditya Prakash -, la danza di Khan, con un vigore centripeto rotto da fughe, da assoli circoscritti dal gruppo, da unisoni ipnotici, da atterramenti, cadute e risalite, tra combattimento di angeli e demoni, di braccia moltiplicate o svolazzanti,  ci trascina in un misterioso e potente mondo di ricordi e scoperta di sé, un viaggio verticale verso l’alto, in un mondo spirituale dove l’uomo sembra riconnettersi con il suo passato ancestrale.

Turning of bones, ph. Giovanni Chiarot

Tra i migliori duetti abbiamo apprezzato Sarah Baltzinger e Isaiah Wilson nel loro spettacolo Megastructure, coppia d’ineccepibile tecnica e dai corpi plasmabili, declinati in sorprendenti forme e stili che spaziano dalla cifra contemporanea alla breakdance e l’hip-hop, con leggerezza e ironia nel silenzio e nel rumore dei soli corpi in movimento coi loro respiri, in un flusso interiore ininterrotto che scorre tra desiderio e indifferenza, vulnerabilità e forza, tenerezza e aggressività, attrazione e repulsione. Tutto questo espresso con incastri e contorsionismi degli arti l’uno nell’altra subito sbrogliati, a volte con fatica ma sempre con naturalezza.

I due si muovono carponi, strisciano come larve, rotolano, lottano velocemente con le sole braccia, si staccano e si ricongiungono. Si ritrovano distesi a terra all’improvviso, non si sa come, se con un salto o con uno scivolamento serpentino, e baciarsi meccanicamente. E ancora: abbracci stretti che arrivano torcendosi all’indietro; posture sbilenche con i corpi manovrati come pezzi da staccare e ricomporre in infinite posizioni e movimenti. Sembrano volersi liberare e non riuscirci se non dopo molti tentativi. Molleggiati, rigidi e snodati come marionette manovrate da fili invisibili, strappano continui sorrisi per quel loro continuo gioco fisico di causa ed effetto, tra peso, resistenza, rimbalzo, rilascio, sospensione e isolamento.

Megastructure, Giovanni Chiarot

Performando senza sosta, la coppia, coi volti sempre impassibili e rivolti spesso agli spettatori, sembra interpellarli per capire, come da intenzioni programmatiche, “Cosa si aspetta il pubblico da uno spettacolo?”.  

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