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Dialogo terzo: in a landscape
Terzo “paesaggio” di una trilogia iniziata con Sharon Fridman, proseguita con Enzo Cosimi, ed ora conclusa con Alessandro Sciarroni, in cui Francesca Pennini e il suo Collettivo Cinetico si sono lasciati guidare da altre menti e mani creative. Tre “landscape“, tre esperienze, tre poetiche, tre estetiche, tre discipline diverse che li hanno attraversati arricchendo una pratica, già perseguita dal gruppo, di contaminazione di linguaggi e approcci performativi. Quello di Sciarroni, lo sappiamo, verte su una pratica fisica di ripetizione fin quasi ossessiva, del corpo solitario, o di gruppo, e/o con un oggetto, tesa ad un accumulo di energia, ad un crescendo performativo che mette alla prova lo spettatore. Questa ostinazione alla ripetizione nei vari lavori finora realizzati, ha generato risultati alterni, con valutazioni e giudizi contrastanti. Le sue performance richiedono allo spettatore una pazienza, un abbandono al loop visivo, scevro da resistenze per trovare una relazione empatica.
La performance con Collettivo Cinetico Dialogo terzo: in a landscape ha individuato nell’hula hoop l’oggetto poetico dell’azione. I cinque performer entrano in scena lentamente ruotando ciascuno il proprio, all’unisono, poi con tempi sfalsati, opposti. È un vorticare lento, veloce, continuo, inesorabile, contrario, durante il quale si guardano tra loro con lievi spostamenti del viso e del corpo, come a indicare traiettorie nuove, complicità, invisibili geometrie di intese e accordi. Tutto è lieve nei movimenti che scorrono sulla partitura sonora di John Cage, composta – riferisce Sciarroni – per “calmare la mente e aprirla ad influenze divine”, ed eseguita dal vivo dal performer e musicista Stefano Sardi. Il gruppo si ferma per sedersi e osservare un assolo che continua la sua rotazione, poi seguito dagli altri. Cambi di velocità avvengono alzando il cerchio dai fianchi su un braccio, in alto e in basso, sul collo con un colpo dei fianchi, stando in equilibrio su una gamba, distanziandosi e riunendosi in fila indiana, tali da generare ipnotiche sequenze che producono effetti di pianeti in orbita, di fluttuazioni aeree, di evanescenze corporee. Insomma, infinite possibilità del movimento circolare, eseguito sempre con un rigore formale, una nitidezza di esercizio che non è solo controllo tecnico, ma rivela una dimensione di socialità, di contatto non fisico – anche se due di loro, disponendosi a specchio, si toccano con le mani -, ma di intenti, di relazioni umane invisibili, che è rapporto di anime “altre”. Leggere, misteriose, fuori dal tempo e dallo spazio. Pronte a scomparire, per ritrovarsi altrove.
Intuition 1
Sono giri e posture, andamenti e ritmi che riproducono la struttura delle danze rinascimentali, gli echi gestuali, le atmosfere. Le robuste fattezze del fisico ben stagliato del giovane coreografo e danzatore Riccardo Guratti, si trasformano facendosi leggero, pesante, veloce, lento, riflessivo, debordante. Si muove sicuro nella circolarità della scena disegnata a terra da foglie d’oro che man mano calpesta e scompone, alludendo ai processi alchemici – quelli che univano elementi diversi nel tentativo di formare l’oro, terzo elemento impossibile da ottenere -. Segni geometrici e simbolici per riscoprire le potenzialità architettoniche dello spazio e del corpo da far coesistere. Tra accenni musicali del ‘500 di Cristofano Malvezzi – La Pellegrina. Dal vago e bel sereno – e di Luis de Milàn, Giulio Caccini, Hildegard von Bingen, l’andamento del corpo segue gesti minimi generati da azioni e reazioni dentro un equilibrio formale e allo stesso tempo libero. In questo rituale solitario di Guratti, dal titolo Intuition 1, c’è una ricerca di simmetrie, di risonanze e corrispondenze gestuali tese a ricomporre forme archetipe. Il sospetto di concettualismo si stempera subito in questa coreografia che scorre leggera, in cui la danza diventa, e ci appare, funzione liberatoria e purificatrice del corpo. Che apre la mente.