27 maggio 2020

Esportare beni culturali è un mestiere pericoloso

di

Storia di una preziosa pergamena che, da New York, deve tornare in mani italiane. Un approfondimento sull'esportazione dei beni culturali, a partire da una recente sentenza

esportazione opere

La recente sentenza con la quale Cassazione ha messo la parola fine alla querelle sorta tra Italia e Stati Uniti in merito alla proprietà di una preziosa pergamena risalente al XI secolo, offre lo spunto per una veloce panoramica sulla disciplina italiana in materia di circolazione dei beni culturali, concentrando particolare attenzione sui rischi di natura penalistica connaturati a un settore così delicato.
Si tratta della sentenza n.11269 depositata lo scorso 2 aprile, relativa ad un procedimento penale nel quale era stato contestato, tra gli altri, il reato di uscita o esportazione illecite di cose di interesse artistico (art. 174 d.lgs. n. 42/2004, cd. Codice dei Beni Culturali), commesso, per l’appunto, in relazione a quel manoscritto risalente al Medio Evo, che era stato sottratto alla Repubblica Italiana nel 1926 per poi essere esposto, sino ai giorni nostri, presso The Pierpont Morgan Library & Museum di New York.

Le circostanze della sentenza 

Per quei fatti non era stato iscritto alcun nominativo nel registro degli indagati, il fascicolo era infatti a carico di ignoti, tanto che il GIP di Macerata ne aveva disposto l’archiviazione.
Contestualmente, però, in forza di quanto prescritto dal terzo comma dell’art. 174, secondo cui “il giudice dispone la confisca delle cose, salvo che queste appartengano a persona estranea al reato”, il GIP aveva ritenuto di procedere alla confisca di quella pergamena, in modo che rientrasse nella disponibilità dello Stato italiano.
Da qui il ricorso presentato dalla Biblioteca della Grande Mela, la quale, facendo leva sulla circostanza di aver ricevuto tale bene in donazione, sosteneva l’impossibilità di applicare la confisca di un bene nella disponibilità giuridica e materiale di un soggetto terzo estraneo al reato, al quale non avrebbe potuto essere richiesta la prova dei singoli passaggi di proprietà (molto risalenti nel tempo) al fine di dimostrare la propria buona fede ed estraneità rispetto al reato.
La Cassazione è stata di contrario avviso, ricordando innanzitutto che non è terzo estraneo non solamente chi abbia contribuito alla commissione del reato, “ma anche chi abbia ricavato vantaggi ed utilità da esso, ovvero qualsiasi giovamento dalla sua commissione, per tale dovendosi intendere qualsivoglia condizione di favore anche non materiale, derivante dal fatto costituente reato”.
Il soggetto che abbia conseguito un vantaggio dall’altrui condotta criminosa potrà considerarsi terzo estraneo solamente se sia in grado di dimostrare di trovarsi in buona fede, sia cioè nella condizione di poter sostenere di non aver potuto conoscere – con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta – il rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato.
Nel caso di specie, la Cassazione ha escluso che la Pierpont Morgan Library si trovasse in una condizione del genere.
“A fronte di un bene dotato di caratteristiche che potevano ricondur(lo) ad una categoria assoggettata ad una speciale tutela”, non poteva bastare, ai fini dell’invocata buona fede, quanto rappresentato dalla biblioteca, la quale, ricordando di aver ricevuto il bene grazie ad una donazione risalente al 1984 e “in assenza di elementi oggettivamente indicativi di una legittima pregressa acquisizione” da parte del donante, si era limitata a sottolinearne la riconosciuta correttezza e probità.
“Proprio la natura del bene”, ha concluso la Corte, “avrebbe dovuto rendere particolarmente penetranti […] le verifiche che si imponevano alla Biblioteca per poter legittimamente opporre la propria buona fede alle pretese dello Stato italiano”.

La pergamena deve tornare in mani italiane

Dopo quasi un secolo, quindi, il prezioso manoscritto di pergamena di San Domenico Loricato, deve tornare in mani italiane, con buona pace della Pierpont Morgan Library & Museum di New York, al quale il bene era stato donato.
Tutto questo, come detto, addirittura senza che sia stato celebrato un giudizio, tantomeno che sia stata pronunciata una sentenza di condanna (ancorché non irrevocabile).
Sebbene possa sembrare un esito sorprendente, in realtà non è affatto così, dal momento che la pronuncia si inserisce nel solco del consolidato orientamento giurisprudenziale che ritiene che la confisca dei beni culturali illegittimamente esportati abbia una natura di ripristinatoria (dell’originaria situazione di dominio pubblico sul bene) e non invece una natura di prevenzione o repressione, come invece le ipotesi di confisca previste agli art. 240 e 240 bis del codice penale.
Ciò significa che può essere disposta a prescindere da qualsivoglia accertamento della responsabilità penale, stante il carattere amministrativo (e non sanzionatorio) della stessa, fatta salva la sola eccezione che la cosa appartenga a persona “estranea al reato”.
Su chi possa essere considerato tale, si è appena visto che la giurisprudenza non va certo per il sottile, dal momento che tende a valutare l’estraneità al reato del terzo alla stregua della verifica della buona fede nell’acquisto del bene, come se le due situazioni fossero sovrapponibili, quando invece attengono a due profili diversi, il profilo dell’appartenenza del bene a l terzo da una parte, l’estraneità di tale terzo rispetto al reato dall’altra.
Quanto occorso alla biblioteca newyorkese, la quale, al netto dalle argomentazioni in diritto spese dalla Cassazione per confermare la legittimità della confisca, aveva ricevuto in donazione quel bene da un soggetto del tutto rispettabile (che peraltro se l’era aggiudicato comprandolo ad un’asta), rappresenta la dimostrazione plastica dei rischi cui può andare incontro il privato.
Ma c’è dell’altro.
Perché se qualcuno dovesse pensare che quel rischio non potrebbe minimamente riguardarlo, perché la questione sarebbe legata solo e soltanto ai beni trafugati nel corso dei conflitti bellici o magari anche solo oggetto di furto, sbaglierebbe di grosso.
Le condotte che rientrano nell’alveo dell’art. 174 del Codice dei beni culturali (e che quindi legittimano l’adozione della confisca ripristinatoria) prescindono totalmente da qualsivoglia apprensione illecita del bene.

Le violazioni

A venire in rilievo, infatti, è la mera violazione della prescrizione di carattere amministrativo fissata dal Legislatore per la circolazione di quel dato bene1.
Al primo comma, infatti, è punita la condotta di chi trasferisce all’estero “cose” culturali senza attestato di libera circolazione o di licenza di esportazione, mentre il secondo comma riguarda colui che, alla scadenza del termine, non fa rientrare in Italia entro il termine previsto “beni” culturali per i quali sia stata autorizzata l’uscita o l’esportazione temporanea.
Alla pena principale, che è di modesta entità (la reclusione da uno a quattro anni o in alternativa la multa da 258 a 5.165 euro), si aggiunge, laddove il condannato eserciti l’attività di vendita al pubblico o quella di esportazione a fini commerciali di oggetti di interesse culturale, la pena accessoria dell’interdizione dalla professione.
Ma, come già detto, il vero spauracchio è rappresentato dalla confisca del bene, che potrà venir disposta in situazioni dall’apparente assai scarsa rilevanza.
L’intensità della risposta non deve stupire, perché è giustificata da quanto stabilito dall’art. 64 bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nel quale si legge che il controllo sulla circolazione internazionale dei beni “costituisce funzione di preminente interesse nazionale” ed è finalizzato a preservare “l’integrità del patrimonio culturale italiano, in tutte le sue componenti”.
Il concetto di fondo che permane nel complesso sistema di presidi disegnato dal Legislatore è scolpito a chiare lettere al terzo comma, a norma del quale i beni che vanno a comporre il patrimonio culturale italiano, a prescindere da chi ne sia titolare (sia cioè quelli che appartengano allo Stato o ad altri enti pubblici, sia quelli che sono di proprietà privata), “non sono assimilabili a merci”.

Nicolò Pelanda, penalista del Team Arte LCA Studio Legale, Milano

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui