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Aldo Mondino – Ironicamente finalese
Personale
Comunicato stampa
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ALDO MONDINO: un giocoliere dell’arte, tra Oriente e cioccolato torinese.
Quando si parla degli anni’60 si ha l’impressione di evocare un periodo mitico, felice, quasi un Eden, dove si andava molto spesso alla ricerca della fenice dell’arte. Un Eden però zeppo di problemi aperti, ad esempio quello dell’iconismo-aniconismo, lasciati in eredità dall’Informale. Il linguaggio era un mezzo per far sconfinare l’arte nella vita, per poi afferrare, magari, piccole schegge della storia universale da amalgamare al lavoro, non meno significativa di certi grandi eventi. Se ci pensiamo meglio ci rendiamo conto che si trattava di un momento di cambiamenti nevrotici, nebulosi, in cui gli artisti erano pronti però a bruciarsi le ali sino in fondo in cambio di una fiammata creativa, o di una leva capace di far deragliare l’apparato logico del potere. Era un momento in cui emergevano fatti e personaggi nuovi, che erano obbligati a scontrarsi con un pantano di epigoni provinciali.
Il consumismo imperante ha fatto passare l’Italia dal ballo della mattonella, sublimazione di una sessualità repressa, al “free jazz”, al “pop”, il che ha significato anche happening di massa. Erano problemi che dovevano essere visti alla luce del rapporto città/campagna, provincia/metropoli, civiltà europea/extraeuropea, come rapporto tra temi storici diversi, tra diversi scenari geografici e culturali, su cui si articolavano le differenze e le discontinuità, i salti e le rotture del progresso, ma dove le distanze si accorciavano sempre di più, dove i rischi dei bombardamenti psichici e atomici valevano per tutti.
Il nuovo problema per i giovani artisti è stato quello di mettere in atto un colpo d’occhio circolare sul mondo, la cui realtà era accertata per contatto, e la cui esistenza si sentiva bruciare sotto le scarpe:occorreva esplorarlo nella complessità dei suoi elementi, dei suoi livelli sociologici, storici, psichici, culturali. In quegli anni Torino—soprattutto per merito delle gallerie: Sperone, Il Punto, Notizie, e poi la Stein—era il centro catalizzatore di incontri, dibattiti, che hanno rivoluzionato l’arte di quel decennio, e molto oltre.
In questo periodo si faceva luce in Europa e in Italia, il pensiero di Marcuse che riscopriva la dimensione del piacere, del gioco, e ridava voce agli istinti e al corpo.
Dal 1964 la Pop Art ha invaso lo spazio dell’esistenza allineandosi alla condizione dell’ ”happening”, si era davanti al concetto di banalità e casualità quotidiana, riscoperti e letti in modo da farne affiorare capacità estetiche inusitate. Questa generazione di artisti, che trovava il proprio comune denominatore nella riabilitazione dell’immagine e nell’atteggiamento di accettazione e di recupero dello stereotipo, si presentava comunque ricca di identità e differenze.
Aldo Mondino allora si richiamava esplicitamente al mondo infantile , alla sua infanzia rivissuta da adulto, faceva il “doppio gioco” (in arte l’ha fatto poi tutta la vita), con pannelli quadrettati divisi in due parti: quello superiore con un’immagine stilizzata ed elementare, disegnata e colorata con proprietà dentro i contorni, quello inferiore identico ma intonso, così come avviene negli albums dei bambini, quadri questi che piacquero molto a Lucy Lippard. Dopo viene un periodo a Parigi in cui Mondino si dispone a fare mille esperienze con tanti pittori ormai celebri (Heyter, Rauschenberg) A Torino i punti di riferimento continuavano ad essere le Gallerie:Il punto di Remo Pastori, diretta da Gian Enzo Sperone, e l’Immagine, a Roma invece La salita di Liverani.
Alla fine degli anni Sessanta, inizio Settanta, arrivano le “Scale”, le “Bilance”, le “Cadute”, i “Palloncini”, in cui continua il concetto di “doppio gioco”, e inizia il superamento della fase concettuale, e l’abbandono del quadro come superficie “classica”, quindi nasce lo scivolamento verso l’ambiente.
“Il soggetto di tutti questi lavori è comunque la pittura, per l’attrazione fatale che ci lega. Il caso delle BILANCE: una macchia di colore, una pennellata sensibile modificano con il loro PESO una stabilità astratto-geometrica...i PALLONCINI operano in senso contrario e trascinano degli elementi del quadro verso l’alto, mentre in alcuni casi è il quadro interno che vola verso il soffitto”(Aldo Mondino).
Nel 1973 nascono i “Falsi collages”, omaggio a Braque, Gris e Picasso, una sorta di “cubismo rivisitato”. “I falsi collages nascono subito dopo i “King”. Orfano degli appuntamenti quotidiani, lascio Roma e mi trasferisco in Liguria…riparto da una pittura giocosa, allegra…I collages sono falsi, sono quadrati di colore dipinti sulla tela, ma fintamente incollati da tubate di colore abbastanza sensibili..lascio la Liguria per il mio secondo prolungato soggiorno parigino.Per circa dieci anni non tornerò in Italia, salvo le vacanze estive sempre in Liguria,e qualche viaggio per raggranellare di che permettermi la dispendiosissima vita in Francia”
Le sperimentazioni tecniche di Mondino sono moltissime: ricordiamo i lavori con le lampadine, (il “Sole” ne conta 900), tante sono le ibridazioni fra i linguaggi come fra xilografia e pittura, strepitose e molto divertenti sono le sculture di caramelle, di torrone, di zucchero, di cioccolato( rigorosamente Peyrano, che ha studiato una mescola di cacao e altro, apposta per il suo lavoro), installazioni con pesci vivi e sanguinanti. Ma è interessante sentire ancora cosa dice Aldo: “Mi erano rimasti due soli tubi di colore, bianco e nero, e forse qualche altro avanzo di altri colori. Partii col nero e poi con un bianco crema, bianco sporcato di giallo. Mi accorsi presto che mi stavo avvicinando a certe incisioni su linoleum, c’erano i segni della sgorbia, un colore copriva l’altro e rendeva precisa l’immagine…. C’era un linguaggio nuovo che mi affascinava e mi divertiva, mi sentivo libero di creare senza citare,in quanto la pittura era parodia di un altro linguaggio. A distanza di quasi trent’anni io ora dipingo praticamente solo su linoleum(vero), mi diverto e posso dire di aver trovato in questo materiale il più valido dei miei collaboratori….I quadri di zucchero furono realizzati a Torino, quando iniziai anche le sculture di caramelle, alla fine degli anni sessanta. DELICATESSEN invece è stato realizzato quando lasciai Roma e mi trasferii a Calice Ligure. Lo zucchero intendeva sostituire il colore in toto, nasce come operazione concettuale…Ne avevo fatti molti e differenti perché pensavo che tutto dovesse essere aleatorio, non durevole.”
Non c’è dubbio che uno dei fili conduttori del grande libro che Aldo Mondino ha costruito, mettendo insieme saggi e capitoli del suo excursus creativo, nell’arco di più di quarant’anni, si è manifestato in un autobiografia da leggere in filigrana all’interno della sua vorace ricerca. Questo autore provvisto di un’inesauribile desiderio di conoscere, di mescolare ricordi e incontri, si propone quasi come uno “schedatore” burlone, di quanto mano d’artista, o pensiero, ha espresso nel tempo, tingendo quindi tutto il suo lavoro con il colore della sua epoca, nonché con le pulsioni segrete del proprio “sentire”. Ci troviamo innanzi ad un instancabile esploratore delle sorgenti più remote della creatività, quelle da cui i ruscelli del suo gusto corrosivo e ludico si diramano ad irrigare la distesa più sorridente della cultura Occidentale, magari con dei sorprendenti “primi piani” e “campi lunghi” anche sugli arabeschi dell’Oriente. Nella sua opera di artista Mondino, grande orientalista contemporaneo collezionista e collezionato, non procede dunque secondo un disegno lineare, ma per giustapposizioni di materiali, in cui ogni elemento rimanda ad altre serie di elementi, pertanto la una autobiografia non può esser un racconto ordinato in una successione cronologica di eventi e di scoperte, ma diventa un’accumulazione di motivi e d’occasioni che nascono e muoiono, e poi rinascono un’altra volta, dando vita al catalogo delle ragioni, che hanno elargito sostegno, identità e forma, alla sua vita di artista.
Il pensiero a-logico di Mondino slitta dall’universale al particolare, per rimbalzare dopo sul fiume in piena del suo privato. Una delle caratteristiche salienti della ricerca di Aldo è la volontà di arrivare all’idea di creatività attraverso il gioco, ma anche quella di essere artistico in proprio, nel suo modo di darsi al mondo.Il nostro artista è stato preda di un intenso desiderio di affondare in un ebbrezza dionisiaca, ma anche di entrare in sintonia con le figure della leggerezza, dell’innocenza sublime del fanciullo, per raggiungere una forma d’arte che sarebbe piaciuta molto a Nietzsche, che amava un’arte “ondeggiante, danzante, irridente, fanciullesca e beata”, che ci è necessaria per non perdere quella libertà sopra le cose che il nostro ideale esige da noi, senza peraltro distinguere chi gioca dal gioco stesso. Questo sguardo è quello di Mondino. Uno sguardo che nasce dal mondo stesso, e dalle cose stesse, quindi è anche lo sguardo delle cose che non cercano valori assoluti, bensì vogliono insinuarsi nel calore di un gioco cosmico. Il vissuto e i suoi molti risvolti, non sono l’origine o la causa del linguaggio, ma, potremmo dire, la sua infanzia. L’infanzia non è come la nascita una condizione di avvio rigettata alle spalle. Infatti l’infanzia “regge e governa”, accompagna per sempre il percorso dell’uomo. In essa, la vita che irrompe con la nascita, prende forma giocando. Il gioco forma la vita. E’ nel mondo ancora muto dell’infanzia che l’uomo, prima che di ogni rigida distinzione tra teoria e prassi, determina il proprio cammino secondo le regole della comunità, e costruisce, agendo col gioco, la sua esperienza del mondo. L’umorismo di Mondino non è mai vacuamente ottimista, infatti chi scambia la tragica farsa della vita per un ragionevole e rassicurante dramma a lieto fine non sa ridere, ma fa forse ridere senza saperlo, è un oggetto del comico come i beffati e gli ingannati delle pochades. L’humour astratto, surreale, ininterrotto,di Aldo Mondino, sottolinea l’inedeguatezza dell’uomo moderno a convivere con l’odierna società dello spettacolo, ma questa inadeguatezza è anche la sua verità, perché non presume di individuare il filo degli eventi e di guidarlo, e ancora meno controllarlo. L’artista sapeva bene che gli eventi da cui dovrebbe dipendere il nostro destino, succedono già la prima volta come parodia di se stessi. Mondino, come Buster Kiton, quando porta sulla tela le immagini è implacabile, ma anche ricco di gioiose tenerezze. La sua ironia è dunque il quotidiano che fa uno sgambetto al sublime,è l’immediatezza delle cose o delle figure, che corregge il patos dello spirito e la rigidezza del contegno. Mondino rimane soprattutto un voyeur, che lascia che il suo mondo di grande viaggiatore si depositi sulle superfici dei quadri per poterle guardare con nostalgico e affettuoso distacco.E’ un grave errore però pensare che il nostro non sia coinvolto nel suo lavoro dalla testa ai piedi. Inoltre Mondino non rinuncia mai al gioco metamorfico dei mascheramenti, dei travestimenti—nella struttura compositiva delle sue opere tutto questo si vede dalle citazioni(soprattutto del suo vissuto), dai loro rimandi, dai loro ritorni--- sulla scena mondiniana si agita sempre la ridda delle “persone” incontrate e amate sia nel corso dei suoi tanti viaggi, che della vita quotidiana.
Qui pensiamo al suo amore per il Marocco, il paese che lo ha influenzato maggiormente dall’Ottanta ad oggi, la sua passione per Fès, Marrakech, Essaouira, è nota, e ha generato una serie di opere geniali come i tappeti e i saltinbanchi.”I primi tappeti risalgono agli anni Ottanta. Stavo passeggiando nel Souk di Tangeri, quello piccolo, quello che chiamano Soko Chico, alla spagnola, quando i miei occhi da miope si soffermano su un tappeto sbiadito in mezzo al vicolo… mi avvicino, non è naturalmente un tappeto, ma un pezzo di materiale probabilmente da costruzione edile.Lo raccolgo…non sto nella pelle per dipingerci sopra:un tappeto naturalmente. Compro i sei colori ad olio che vendono nel Bazar e incomincio la prima di una lunga serie di opere, ispirate ai tappeti orientali. Il materiale è truciolato.. e si chiama eraclite”. Ma il Marocco è fonte anche di altre ispirazioni, di altre folgorazioni, coglie la meraviglia dei colori cangianti, i prodigi semplici dell’abilità o della goffaggine, le seduzioni degli Gnawa,”saltimbanchi”, “acrobati”, guizzanti e disossati nelle loro evoluzioni su strade,piazze, sui tavolacci delle fiere e dei mercati, capaci di saltare attraverso l’anello dorato di un cerchio di luce, essi ci parlano di un sincretismo romantico, ma anche delle figure pittoricamente spericolate di un Rosso Fiorentino, poi contaminate giocosamente col ritmo del Jazz, cosi da restituire giovinezza all’”arte alta”, e lanciare una sfida aperta alla pesantezza del mondo attraverso lo zampillare verticale di un balzo, la bellezza della loro animalità sfolgorante. Legate a questo tema sono anche le “Angurie” (dipinte o in vetro), una delle ultime “pensate” di Aldo. Un esempio ne è anche la “Valigia marocchina”, una scultura in cui il frutto vitreo è appoggiato su una valigia di legno (simbolo dell’eterno viaggio dei giocolieri col loro bagaglio di sudore, lacrime e riso). Esse sono anche il segno metaforico della palla che i giocolieri adoperano nei circhi e per le strade. La determinazione plastica dell’anguria è calibrata in modo da dare alla materia solida la qualità imponderabile della LUX. Le “pastéques”( così le chiamano i francesi) dipinte e lasciate in bilico su una scatola rossa di cartone in rilievo rispetto al fondo, che si rivela come luce, si impongono come forma cosmica , mentre le scatole affermano ulteriormente il loro destino di bagaglio degli eterni pellegrini del gioco e del riso. Nel suo gioco di erranza poetica, Mondino si innamora anche dei mercanti e delle loro mercanzie( non dimentichiamo le sue riscoperte origini ebraiche), magari quelli incontrati in Cappadocia coi loro affabulanti costumi, pretesto veritiero per una galleria di “ritratti”, condotti con mano virtuosa e veloce, che coglie i tratti essenziali di volti severi incorniciati di capelli e baffi rigorosamente neri. L’io plurale dell’artista esplode sovente in un frenetico movimento arabescante, che si dilata come un respiro cosmico. Una prova di tutto questo è rappresentata dalle bellissime e fortunate tele dedicate ai Sufi o dervisci –uomini dediti a pratiche ascetiche, che servivano a provocare stati mistici—che danzavano sfrenatamente la loro danza-preghiera (per Mondino dipingere equivaleva a recitare una preghiera), muovendosi leggeri con le loro vesti bianche come fiori, immateriali farfalle che volano in uno spazio completamente astratto, incorniciato però da decorazioni a mosaico pittorico che li riconnette all’architettura persiana , o turca, le terre in cui essi vivevano affiliati alle sette religiose mussulmane. E’ curioso come tutti questi quadri vogliono produrre, coi loro fondi lisci e perlescenti di linoleum, un processo di astrazione e di prosciugamento dello spazio figurativo, anche quando lo spazio dell’immagine tende necessariamente ad espandersi per occupare il luogo dei sensi.
Questi personaggi legati ad un particolare concetto di gioiosa leggerezza, oggi sono simbolo di uno sguardo partecipe di Mondino verso la spiritualità, in essi vive il segreto profondo di un eros sublime, che fin dall’inizio della “storia” dell’artista è rivolto verso la verità prima ancora che verso la realtà. Ciò rivela la funzione dell’immagine nell’eros, che è platonicamente eros dell’idea, e in quanto tale è autentica creazione.
Se è vero che il riso e l’ironia trasformano lo scacco in vittoria, e ci fanno scoprire anche nei momenti bui di una partita irreparabilmente perduta, attimi vivibili e godibili, allora a Mondino, non possiamo che dire, gratamente, “grazie”.
Marisa Vescovo
Le parti che in questo testo compaiono in corsivo sono tratte da un intervista di Claudia Casali ad Aldo Mondino per la mostra “Mondino Aldo/logica”. Ravenna 2003-2004.
Quando si parla degli anni’60 si ha l’impressione di evocare un periodo mitico, felice, quasi un Eden, dove si andava molto spesso alla ricerca della fenice dell’arte. Un Eden però zeppo di problemi aperti, ad esempio quello dell’iconismo-aniconismo, lasciati in eredità dall’Informale. Il linguaggio era un mezzo per far sconfinare l’arte nella vita, per poi afferrare, magari, piccole schegge della storia universale da amalgamare al lavoro, non meno significativa di certi grandi eventi. Se ci pensiamo meglio ci rendiamo conto che si trattava di un momento di cambiamenti nevrotici, nebulosi, in cui gli artisti erano pronti però a bruciarsi le ali sino in fondo in cambio di una fiammata creativa, o di una leva capace di far deragliare l’apparato logico del potere. Era un momento in cui emergevano fatti e personaggi nuovi, che erano obbligati a scontrarsi con un pantano di epigoni provinciali.
Il consumismo imperante ha fatto passare l’Italia dal ballo della mattonella, sublimazione di una sessualità repressa, al “free jazz”, al “pop”, il che ha significato anche happening di massa. Erano problemi che dovevano essere visti alla luce del rapporto città/campagna, provincia/metropoli, civiltà europea/extraeuropea, come rapporto tra temi storici diversi, tra diversi scenari geografici e culturali, su cui si articolavano le differenze e le discontinuità, i salti e le rotture del progresso, ma dove le distanze si accorciavano sempre di più, dove i rischi dei bombardamenti psichici e atomici valevano per tutti.
Il nuovo problema per i giovani artisti è stato quello di mettere in atto un colpo d’occhio circolare sul mondo, la cui realtà era accertata per contatto, e la cui esistenza si sentiva bruciare sotto le scarpe:occorreva esplorarlo nella complessità dei suoi elementi, dei suoi livelli sociologici, storici, psichici, culturali. In quegli anni Torino—soprattutto per merito delle gallerie: Sperone, Il Punto, Notizie, e poi la Stein—era il centro catalizzatore di incontri, dibattiti, che hanno rivoluzionato l’arte di quel decennio, e molto oltre.
In questo periodo si faceva luce in Europa e in Italia, il pensiero di Marcuse che riscopriva la dimensione del piacere, del gioco, e ridava voce agli istinti e al corpo.
Dal 1964 la Pop Art ha invaso lo spazio dell’esistenza allineandosi alla condizione dell’ ”happening”, si era davanti al concetto di banalità e casualità quotidiana, riscoperti e letti in modo da farne affiorare capacità estetiche inusitate. Questa generazione di artisti, che trovava il proprio comune denominatore nella riabilitazione dell’immagine e nell’atteggiamento di accettazione e di recupero dello stereotipo, si presentava comunque ricca di identità e differenze.
Aldo Mondino allora si richiamava esplicitamente al mondo infantile , alla sua infanzia rivissuta da adulto, faceva il “doppio gioco” (in arte l’ha fatto poi tutta la vita), con pannelli quadrettati divisi in due parti: quello superiore con un’immagine stilizzata ed elementare, disegnata e colorata con proprietà dentro i contorni, quello inferiore identico ma intonso, così come avviene negli albums dei bambini, quadri questi che piacquero molto a Lucy Lippard. Dopo viene un periodo a Parigi in cui Mondino si dispone a fare mille esperienze con tanti pittori ormai celebri (Heyter, Rauschenberg) A Torino i punti di riferimento continuavano ad essere le Gallerie:Il punto di Remo Pastori, diretta da Gian Enzo Sperone, e l’Immagine, a Roma invece La salita di Liverani.
Alla fine degli anni Sessanta, inizio Settanta, arrivano le “Scale”, le “Bilance”, le “Cadute”, i “Palloncini”, in cui continua il concetto di “doppio gioco”, e inizia il superamento della fase concettuale, e l’abbandono del quadro come superficie “classica”, quindi nasce lo scivolamento verso l’ambiente.
“Il soggetto di tutti questi lavori è comunque la pittura, per l’attrazione fatale che ci lega. Il caso delle BILANCE: una macchia di colore, una pennellata sensibile modificano con il loro PESO una stabilità astratto-geometrica...i PALLONCINI operano in senso contrario e trascinano degli elementi del quadro verso l’alto, mentre in alcuni casi è il quadro interno che vola verso il soffitto”(Aldo Mondino).
Nel 1973 nascono i “Falsi collages”, omaggio a Braque, Gris e Picasso, una sorta di “cubismo rivisitato”. “I falsi collages nascono subito dopo i “King”. Orfano degli appuntamenti quotidiani, lascio Roma e mi trasferisco in Liguria…riparto da una pittura giocosa, allegra…I collages sono falsi, sono quadrati di colore dipinti sulla tela, ma fintamente incollati da tubate di colore abbastanza sensibili..lascio la Liguria per il mio secondo prolungato soggiorno parigino.Per circa dieci anni non tornerò in Italia, salvo le vacanze estive sempre in Liguria,e qualche viaggio per raggranellare di che permettermi la dispendiosissima vita in Francia”
Le sperimentazioni tecniche di Mondino sono moltissime: ricordiamo i lavori con le lampadine, (il “Sole” ne conta 900), tante sono le ibridazioni fra i linguaggi come fra xilografia e pittura, strepitose e molto divertenti sono le sculture di caramelle, di torrone, di zucchero, di cioccolato( rigorosamente Peyrano, che ha studiato una mescola di cacao e altro, apposta per il suo lavoro), installazioni con pesci vivi e sanguinanti. Ma è interessante sentire ancora cosa dice Aldo: “Mi erano rimasti due soli tubi di colore, bianco e nero, e forse qualche altro avanzo di altri colori. Partii col nero e poi con un bianco crema, bianco sporcato di giallo. Mi accorsi presto che mi stavo avvicinando a certe incisioni su linoleum, c’erano i segni della sgorbia, un colore copriva l’altro e rendeva precisa l’immagine…. C’era un linguaggio nuovo che mi affascinava e mi divertiva, mi sentivo libero di creare senza citare,in quanto la pittura era parodia di un altro linguaggio. A distanza di quasi trent’anni io ora dipingo praticamente solo su linoleum(vero), mi diverto e posso dire di aver trovato in questo materiale il più valido dei miei collaboratori….I quadri di zucchero furono realizzati a Torino, quando iniziai anche le sculture di caramelle, alla fine degli anni sessanta. DELICATESSEN invece è stato realizzato quando lasciai Roma e mi trasferii a Calice Ligure. Lo zucchero intendeva sostituire il colore in toto, nasce come operazione concettuale…Ne avevo fatti molti e differenti perché pensavo che tutto dovesse essere aleatorio, non durevole.”
Non c’è dubbio che uno dei fili conduttori del grande libro che Aldo Mondino ha costruito, mettendo insieme saggi e capitoli del suo excursus creativo, nell’arco di più di quarant’anni, si è manifestato in un autobiografia da leggere in filigrana all’interno della sua vorace ricerca. Questo autore provvisto di un’inesauribile desiderio di conoscere, di mescolare ricordi e incontri, si propone quasi come uno “schedatore” burlone, di quanto mano d’artista, o pensiero, ha espresso nel tempo, tingendo quindi tutto il suo lavoro con il colore della sua epoca, nonché con le pulsioni segrete del proprio “sentire”. Ci troviamo innanzi ad un instancabile esploratore delle sorgenti più remote della creatività, quelle da cui i ruscelli del suo gusto corrosivo e ludico si diramano ad irrigare la distesa più sorridente della cultura Occidentale, magari con dei sorprendenti “primi piani” e “campi lunghi” anche sugli arabeschi dell’Oriente. Nella sua opera di artista Mondino, grande orientalista contemporaneo collezionista e collezionato, non procede dunque secondo un disegno lineare, ma per giustapposizioni di materiali, in cui ogni elemento rimanda ad altre serie di elementi, pertanto la una autobiografia non può esser un racconto ordinato in una successione cronologica di eventi e di scoperte, ma diventa un’accumulazione di motivi e d’occasioni che nascono e muoiono, e poi rinascono un’altra volta, dando vita al catalogo delle ragioni, che hanno elargito sostegno, identità e forma, alla sua vita di artista.
Il pensiero a-logico di Mondino slitta dall’universale al particolare, per rimbalzare dopo sul fiume in piena del suo privato. Una delle caratteristiche salienti della ricerca di Aldo è la volontà di arrivare all’idea di creatività attraverso il gioco, ma anche quella di essere artistico in proprio, nel suo modo di darsi al mondo.Il nostro artista è stato preda di un intenso desiderio di affondare in un ebbrezza dionisiaca, ma anche di entrare in sintonia con le figure della leggerezza, dell’innocenza sublime del fanciullo, per raggiungere una forma d’arte che sarebbe piaciuta molto a Nietzsche, che amava un’arte “ondeggiante, danzante, irridente, fanciullesca e beata”, che ci è necessaria per non perdere quella libertà sopra le cose che il nostro ideale esige da noi, senza peraltro distinguere chi gioca dal gioco stesso. Questo sguardo è quello di Mondino. Uno sguardo che nasce dal mondo stesso, e dalle cose stesse, quindi è anche lo sguardo delle cose che non cercano valori assoluti, bensì vogliono insinuarsi nel calore di un gioco cosmico. Il vissuto e i suoi molti risvolti, non sono l’origine o la causa del linguaggio, ma, potremmo dire, la sua infanzia. L’infanzia non è come la nascita una condizione di avvio rigettata alle spalle. Infatti l’infanzia “regge e governa”, accompagna per sempre il percorso dell’uomo. In essa, la vita che irrompe con la nascita, prende forma giocando. Il gioco forma la vita. E’ nel mondo ancora muto dell’infanzia che l’uomo, prima che di ogni rigida distinzione tra teoria e prassi, determina il proprio cammino secondo le regole della comunità, e costruisce, agendo col gioco, la sua esperienza del mondo. L’umorismo di Mondino non è mai vacuamente ottimista, infatti chi scambia la tragica farsa della vita per un ragionevole e rassicurante dramma a lieto fine non sa ridere, ma fa forse ridere senza saperlo, è un oggetto del comico come i beffati e gli ingannati delle pochades. L’humour astratto, surreale, ininterrotto,di Aldo Mondino, sottolinea l’inedeguatezza dell’uomo moderno a convivere con l’odierna società dello spettacolo, ma questa inadeguatezza è anche la sua verità, perché non presume di individuare il filo degli eventi e di guidarlo, e ancora meno controllarlo. L’artista sapeva bene che gli eventi da cui dovrebbe dipendere il nostro destino, succedono già la prima volta come parodia di se stessi. Mondino, come Buster Kiton, quando porta sulla tela le immagini è implacabile, ma anche ricco di gioiose tenerezze. La sua ironia è dunque il quotidiano che fa uno sgambetto al sublime,è l’immediatezza delle cose o delle figure, che corregge il patos dello spirito e la rigidezza del contegno. Mondino rimane soprattutto un voyeur, che lascia che il suo mondo di grande viaggiatore si depositi sulle superfici dei quadri per poterle guardare con nostalgico e affettuoso distacco.E’ un grave errore però pensare che il nostro non sia coinvolto nel suo lavoro dalla testa ai piedi. Inoltre Mondino non rinuncia mai al gioco metamorfico dei mascheramenti, dei travestimenti—nella struttura compositiva delle sue opere tutto questo si vede dalle citazioni(soprattutto del suo vissuto), dai loro rimandi, dai loro ritorni--- sulla scena mondiniana si agita sempre la ridda delle “persone” incontrate e amate sia nel corso dei suoi tanti viaggi, che della vita quotidiana.
Qui pensiamo al suo amore per il Marocco, il paese che lo ha influenzato maggiormente dall’Ottanta ad oggi, la sua passione per Fès, Marrakech, Essaouira, è nota, e ha generato una serie di opere geniali come i tappeti e i saltinbanchi.”I primi tappeti risalgono agli anni Ottanta. Stavo passeggiando nel Souk di Tangeri, quello piccolo, quello che chiamano Soko Chico, alla spagnola, quando i miei occhi da miope si soffermano su un tappeto sbiadito in mezzo al vicolo… mi avvicino, non è naturalmente un tappeto, ma un pezzo di materiale probabilmente da costruzione edile.Lo raccolgo…non sto nella pelle per dipingerci sopra:un tappeto naturalmente. Compro i sei colori ad olio che vendono nel Bazar e incomincio la prima di una lunga serie di opere, ispirate ai tappeti orientali. Il materiale è truciolato.. e si chiama eraclite”. Ma il Marocco è fonte anche di altre ispirazioni, di altre folgorazioni, coglie la meraviglia dei colori cangianti, i prodigi semplici dell’abilità o della goffaggine, le seduzioni degli Gnawa,”saltimbanchi”, “acrobati”, guizzanti e disossati nelle loro evoluzioni su strade,piazze, sui tavolacci delle fiere e dei mercati, capaci di saltare attraverso l’anello dorato di un cerchio di luce, essi ci parlano di un sincretismo romantico, ma anche delle figure pittoricamente spericolate di un Rosso Fiorentino, poi contaminate giocosamente col ritmo del Jazz, cosi da restituire giovinezza all’”arte alta”, e lanciare una sfida aperta alla pesantezza del mondo attraverso lo zampillare verticale di un balzo, la bellezza della loro animalità sfolgorante. Legate a questo tema sono anche le “Angurie” (dipinte o in vetro), una delle ultime “pensate” di Aldo. Un esempio ne è anche la “Valigia marocchina”, una scultura in cui il frutto vitreo è appoggiato su una valigia di legno (simbolo dell’eterno viaggio dei giocolieri col loro bagaglio di sudore, lacrime e riso). Esse sono anche il segno metaforico della palla che i giocolieri adoperano nei circhi e per le strade. La determinazione plastica dell’anguria è calibrata in modo da dare alla materia solida la qualità imponderabile della LUX. Le “pastéques”( così le chiamano i francesi) dipinte e lasciate in bilico su una scatola rossa di cartone in rilievo rispetto al fondo, che si rivela come luce, si impongono come forma cosmica , mentre le scatole affermano ulteriormente il loro destino di bagaglio degli eterni pellegrini del gioco e del riso. Nel suo gioco di erranza poetica, Mondino si innamora anche dei mercanti e delle loro mercanzie( non dimentichiamo le sue riscoperte origini ebraiche), magari quelli incontrati in Cappadocia coi loro affabulanti costumi, pretesto veritiero per una galleria di “ritratti”, condotti con mano virtuosa e veloce, che coglie i tratti essenziali di volti severi incorniciati di capelli e baffi rigorosamente neri. L’io plurale dell’artista esplode sovente in un frenetico movimento arabescante, che si dilata come un respiro cosmico. Una prova di tutto questo è rappresentata dalle bellissime e fortunate tele dedicate ai Sufi o dervisci –uomini dediti a pratiche ascetiche, che servivano a provocare stati mistici—che danzavano sfrenatamente la loro danza-preghiera (per Mondino dipingere equivaleva a recitare una preghiera), muovendosi leggeri con le loro vesti bianche come fiori, immateriali farfalle che volano in uno spazio completamente astratto, incorniciato però da decorazioni a mosaico pittorico che li riconnette all’architettura persiana , o turca, le terre in cui essi vivevano affiliati alle sette religiose mussulmane. E’ curioso come tutti questi quadri vogliono produrre, coi loro fondi lisci e perlescenti di linoleum, un processo di astrazione e di prosciugamento dello spazio figurativo, anche quando lo spazio dell’immagine tende necessariamente ad espandersi per occupare il luogo dei sensi.
Questi personaggi legati ad un particolare concetto di gioiosa leggerezza, oggi sono simbolo di uno sguardo partecipe di Mondino verso la spiritualità, in essi vive il segreto profondo di un eros sublime, che fin dall’inizio della “storia” dell’artista è rivolto verso la verità prima ancora che verso la realtà. Ciò rivela la funzione dell’immagine nell’eros, che è platonicamente eros dell’idea, e in quanto tale è autentica creazione.
Se è vero che il riso e l’ironia trasformano lo scacco in vittoria, e ci fanno scoprire anche nei momenti bui di una partita irreparabilmente perduta, attimi vivibili e godibili, allora a Mondino, non possiamo che dire, gratamente, “grazie”.
Marisa Vescovo
Le parti che in questo testo compaiono in corsivo sono tratte da un intervista di Claudia Casali ad Aldo Mondino per la mostra “Mondino Aldo/logica”. Ravenna 2003-2004.
05
agosto 2005
Aldo Mondino – Ironicamente finalese
Dal 05 agosto al 02 ottobre 2005
arte contemporanea
Location
COMPLESSO MONUMENTALE DI SANTA CATERINA
Finale Ligure, Piazza Santa Caterina, (Savona)
Finale Ligure, Piazza Santa Caterina, (Savona)
Orario di apertura
tutti i giorni 18-23, chiuso il martedì
Vernissage
5 Agosto 2005, ore 19
Autore
Curatore




