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Annamaria Targher – Kammerspiel
Si inaugura sabato 29 novembre l’ultima densa personale di Annamaria Targher. Il titolo mutuato sia dal teatro che dall’arte cinematografica, entrambi a lei molto cari, vuole designare l’intenzionalità di mettere in scena e di condividere, in un dialogo intimo, le vicissitudini dell’artista.
Comunicato stampa
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Si inaugura sabato 29 novembre l’ultima densa personale di Annamaria Targher dopo la cospicua Botanica, riassunto di una vita dedicata all’arte e alla coltivazione della natura. Il titolo mutuato sia dal teatro che dall’arte cinematografica, entrambi a lei molto cari, vuole designare l’intenzionalità di mettere in scena e di condividere, in un dialogo intimo, le vicissitudini dell’artista che prende per mano lo spettatore per condurlo nelle varie stanze, allestite al pari delle proprie mappe mentali.
Si esordirà, così, con la serie Woman intrisa di violenza, recriminazione e denuncia per il piccolo spazio, angusto che ogni giorno, come in un diario greve e risoluto, tocca tentare di ricavarsi, non solo per imprimersi con l’esperienza nel dato di realtà, ma anche solo per esistere, incolumi, libere, senza paura e, soprattutto, limitazioni. Si narra di stringimenti, soffocamenti, prese come tenaglie dolorose, insostituibili e coatte.
Sono piccole tavole ad altissima tensione, della misura di raffinate icone che ospitano, però, brandelli di cronaca insopportabili ed urticanti. La dimensione della lotta straripa talvolta nel sacro ed abbraccia quella iconografia veterotestamentaria così ben incistata, sotto strati di recente e diversa biografia, nella cultura giovanile dell’artista. Giacobbe e l’angelo combattono, sì, con vigore, ma anche con inaudita sensualità nell’affresco romantico di Delacroix; come, nel momento dell’avvenuta liberazione da una situazione altamente costrittiva e pericolosa, Annamaria si affida ad una cacciata dal Paradiso paradigmatica (quella del Masaccio nella cappella Brancacci) per documentare un processo di dolorosa, ma necessaria trasformazione che la porterà, per il tramite delle sembianze di Eva, all’aria aperta, lontana da una morsa tenace e mortifera come una tagliola e denunciata, sin nel titolo, alla stregua di una pancia di balena, costringente. Il rimando, qui, è a Giona e, dopo la disperazione per la coazione al buio, sembra giungere l’inattesa catarsi.
Successivamente al forte e devastante, ma necessario lavoro di denuncia o di elaborazione culminato nell’icastico Filo spinato, esteticamente valevole, maggiorato in un’accezione pop che non ne invalida affatto la potenza terrificante, viene intrapresa con convinzione la tortuosa via della ricostruzione: di un terreno bruciato, raso letteralmente al suolo.
L’artista appare sperduta e l’unico ancoraggio deriva dalla copia, non pedissequa, dei grandi, a lei fratelli. Nella ripresa e nella rielaborazione assume il loro ritmo, il tempo si allarga, il respiro si calma e sembra divenire un tutt’uno col secolo precedente. Dopo la dinamite, la tenaglia, il ferro pungente subiti, si abbraccia volontariamente la calma dei fiori, quelli messi estaticamente nei vasi ad attendere di venire ritratti: quelli che dilatano il momento dell’azione fino a renderla, nella conclusione che carpisce il soggetto, immutata, eterna e straordinariamente ragguardevole. Si scopre, così, vicina a Morandi per la sua vivida carnalità, straripante, ma ben inserita nella sua pittura che rimane fortemente connotata di scultura. I fiori, al contempo, sono cenci lussureggianti, mai bloccati, ma in movimento. Mentre de Pisis, potenzialmente vicino per la sua celeberrima stenografia diventa, nel percorrerlo, estraneo, quasi ostile. Troppo agitato per consentire l’emissione di fondamenta nuove.
I basamenti inediti saranno, allora, quelli ancestrali del menhir, la struttura a tre elementi con due megaliti ed una architrave a coprire e chiudere, a dare sicurezza: come lo è l’igloo, già caro a Merz, costituito qui da una struttura traforata, aperta, in relazione con l’esterno e grondante suppurazione esistenziale.
Naufragio. Bitta con cencio, invece, rappresenta un cardine evolutivo nella ricerca artistica. La resa del paesaggio solenne e lontano per il tramite di pennellate parallele e stancamente orizzontali afferiscono ad una tavolozza, di primo acchito, sostanzialmente monocromatica: peccato che il dispiegarsi di tutte le tonalità del verde (dal freddo smeraldo al caldo vescica) apra scenari illimitati, altamente paesaggistici e prima nascosti o preclusi. Le pennellate, tra il loro stendersi, lasciano trasparire habitat nuovi e sondabili, invitando all’immersione: l’interesse e l’esplorazione si insediano automaticamente nello scorgere e nel permanere tra le righe.
Lo sfavillio, però, del collage sovrapposto, colloca una precisa via di fuga tra il mare e il cielo. Movimenta, lasciandolo sempre polverizzato, l’accenno onesto e placido di delimitazione tra la volta e lo specchio acquatico, suggerendo la presenza di un altro dato naturale e incisivo: il vento che tutto cancella e spazza via.
Annamaria Targher (Trento, 1974) si è diplomata con lode in Pittura all’Accademia di Belle Arti e si è laureata col massimo del punteggio in Scienze dei Beni Culturali.
Vive tra Vicenza e San Sebastiano di Folgaria (TN)
Si esordirà, così, con la serie Woman intrisa di violenza, recriminazione e denuncia per il piccolo spazio, angusto che ogni giorno, come in un diario greve e risoluto, tocca tentare di ricavarsi, non solo per imprimersi con l’esperienza nel dato di realtà, ma anche solo per esistere, incolumi, libere, senza paura e, soprattutto, limitazioni. Si narra di stringimenti, soffocamenti, prese come tenaglie dolorose, insostituibili e coatte.
Sono piccole tavole ad altissima tensione, della misura di raffinate icone che ospitano, però, brandelli di cronaca insopportabili ed urticanti. La dimensione della lotta straripa talvolta nel sacro ed abbraccia quella iconografia veterotestamentaria così ben incistata, sotto strati di recente e diversa biografia, nella cultura giovanile dell’artista. Giacobbe e l’angelo combattono, sì, con vigore, ma anche con inaudita sensualità nell’affresco romantico di Delacroix; come, nel momento dell’avvenuta liberazione da una situazione altamente costrittiva e pericolosa, Annamaria si affida ad una cacciata dal Paradiso paradigmatica (quella del Masaccio nella cappella Brancacci) per documentare un processo di dolorosa, ma necessaria trasformazione che la porterà, per il tramite delle sembianze di Eva, all’aria aperta, lontana da una morsa tenace e mortifera come una tagliola e denunciata, sin nel titolo, alla stregua di una pancia di balena, costringente. Il rimando, qui, è a Giona e, dopo la disperazione per la coazione al buio, sembra giungere l’inattesa catarsi.
Successivamente al forte e devastante, ma necessario lavoro di denuncia o di elaborazione culminato nell’icastico Filo spinato, esteticamente valevole, maggiorato in un’accezione pop che non ne invalida affatto la potenza terrificante, viene intrapresa con convinzione la tortuosa via della ricostruzione: di un terreno bruciato, raso letteralmente al suolo.
L’artista appare sperduta e l’unico ancoraggio deriva dalla copia, non pedissequa, dei grandi, a lei fratelli. Nella ripresa e nella rielaborazione assume il loro ritmo, il tempo si allarga, il respiro si calma e sembra divenire un tutt’uno col secolo precedente. Dopo la dinamite, la tenaglia, il ferro pungente subiti, si abbraccia volontariamente la calma dei fiori, quelli messi estaticamente nei vasi ad attendere di venire ritratti: quelli che dilatano il momento dell’azione fino a renderla, nella conclusione che carpisce il soggetto, immutata, eterna e straordinariamente ragguardevole. Si scopre, così, vicina a Morandi per la sua vivida carnalità, straripante, ma ben inserita nella sua pittura che rimane fortemente connotata di scultura. I fiori, al contempo, sono cenci lussureggianti, mai bloccati, ma in movimento. Mentre de Pisis, potenzialmente vicino per la sua celeberrima stenografia diventa, nel percorrerlo, estraneo, quasi ostile. Troppo agitato per consentire l’emissione di fondamenta nuove.
I basamenti inediti saranno, allora, quelli ancestrali del menhir, la struttura a tre elementi con due megaliti ed una architrave a coprire e chiudere, a dare sicurezza: come lo è l’igloo, già caro a Merz, costituito qui da una struttura traforata, aperta, in relazione con l’esterno e grondante suppurazione esistenziale.
Naufragio. Bitta con cencio, invece, rappresenta un cardine evolutivo nella ricerca artistica. La resa del paesaggio solenne e lontano per il tramite di pennellate parallele e stancamente orizzontali afferiscono ad una tavolozza, di primo acchito, sostanzialmente monocromatica: peccato che il dispiegarsi di tutte le tonalità del verde (dal freddo smeraldo al caldo vescica) apra scenari illimitati, altamente paesaggistici e prima nascosti o preclusi. Le pennellate, tra il loro stendersi, lasciano trasparire habitat nuovi e sondabili, invitando all’immersione: l’interesse e l’esplorazione si insediano automaticamente nello scorgere e nel permanere tra le righe.
Lo sfavillio, però, del collage sovrapposto, colloca una precisa via di fuga tra il mare e il cielo. Movimenta, lasciandolo sempre polverizzato, l’accenno onesto e placido di delimitazione tra la volta e lo specchio acquatico, suggerendo la presenza di un altro dato naturale e incisivo: il vento che tutto cancella e spazza via.
Annamaria Targher (Trento, 1974) si è diplomata con lode in Pittura all’Accademia di Belle Arti e si è laureata col massimo del punteggio in Scienze dei Beni Culturali.
Vive tra Vicenza e San Sebastiano di Folgaria (TN)
29
novembre 2025
Annamaria Targher – Kammerspiel
Dal 29 novembre al 31 dicembre 2025
arte contemporanea
Location
Palazzo de Probizer
Isera, Piazza San Vincenzo, 1, (TN)
Isera, Piazza San Vincenzo, 1, (TN)
Orario di apertura
mercoledì - venerdì 18.00 - 20.00
sabato e domenica 11.00 – 13.00, 18.00 – 20.00
Vernissage
29 Novembre 2025, 17.30
Sito web
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Curatore
Autore testo critico
Media partner
Produzione organizzazione
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