Come un esploratore del corpo umano che vada a sezionarne le singole parti, fino all’isolamento della cellula, così Carlo Cavina è abituato a smembrare la meccanica dell’apparecchio fotografico e a ricostruirla in maniera artigianale, per arrivare a possedere e governare con volontà fabbrile, ogni processo di funzionamento. Queste macchine che riproduce in qualsiasi dimensione e materiale portano il suo nome e quello di antichi re, hanno peso e presenza nelle sue esposizioni e si fanno guardare al pari dei soggetti che rovesciano nel loro misterioso specchio. Le immagini nate da questi strani relitti di modernità e passato si impressionano direttamente sulla pellicola, mescolano i passaggi, convivono in positivo sul supporto del negativo, sovvertono le regole e le procedure, riportando la fotografia a quella condizione di meraviglia e di ottica magica, a cui la sua nascita l’aveva destinata.
Sabrina Foschini