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Corrado Bonomi – Sogno come ironia
Bonomi denuncia universi infantili, tradendo una maturità che si serve dell’ironia come l’assassino si serve dell’infermità mentale per restare impunito
Comunicato stampa
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Quattro passi nel “Bel Paese delle Meraviglie” con Corrado Bonomi
Intervista a cura di Viviana Siviero
Tutti noi, in un tempo più o meno lontano siamo stati bambini. C’è chi poi una mattina si sveglia diverso -scoprendo senza esserne consapevole, che quel tempo è passato- o chi riceve in dono di mantenere per sempre il suo immaginario più sincero. Corrado Bonomi ha percorso la lunga strada della vita passando attraverso molti medium: le sue mani -schiave obbedienti di un pensiero creativo- hanno sconfinato in universi differenti, generando liberamente pitture, sculture ed installazioni, generose, gaie e taglienti, come il più serio fra i giochi.
Il bilancio, stimato proprio “nel mezzo del cammino”, è un girotondo di opere, che sembrano rivolgersi a noi con un ghigno vagamente amaro; a generarle, un paio d’occhi, che hanno saputo conservare la parte infantile e sana dell’essere, capaci di conservare uno sguardo lucido, obiettivo e impavido, negato a chi, per crescere, ha accettato di scendere a patti con l’esistere.
Occhi che -come lo specchio di Alice- sono capaci di restituire un “bel paese delle meraviglie” in cui è necessario restare all’erta. Occhi capaci di vedere un boa che ha ingoiato un orso dove chiunque vedrebbe un cappello (Saint Exupery docet).
Bonomi denuncia universi infantili, tradendo una maturità, che si serve dell’ironia, come l’assassino si serve dell’infermità mentale per restare impunito. Non è un problema di medium contingenti, non ci si deve fissare sul risultato formale: l’uso del pennello si avvicenda ad altre forme espressive a seconda dell’impulso, della necessità e della curiosità. Interventi su vecchi manifesti, condotti con la cura di un pasticcere, si alternano ad assemblaggi creativi di oggetti affettivi e domestici, feticci eighties, che ricordano il tesoro in scatola dell’Amelie di Jeunet, ri-assortiti in modo velatamente politically uncorrect...Beni dallo scarso valore commerciale, manipolati per risorgere a nuova vita, preziosità di bambini che innescano circuiti d’affezione che, in una misura o nell’altra, sono la storia di tutti, generati fra le quattro mura di un Bomarzo urbano e privatissimo.
Una genialità, quella di Bonomi, da ricercare nel “perché” più che nel “come”: «tutto sommato è solo un caso che l’arte coincida con i destini dell’uomo» afferma Corrado, col suo sorriso tipico da Stregatto terrestre…
Viviana Siviero: La tua è una carriera lunga ed intensa, che ti ha portato ad essere una sorta di narratore senza parole, che esprime la rabbia sana dell’arte. Com’è cominciata l’avventura?
Corrado Bonomi: Non mi sono mai fermato più di tanto a riflettere sulla mia carriera, sempre troppo impegnato nella creazione in divenire. Ho una sorta di pudore scaramantico nel parlare di me…quando cominci a guardarti indietro è perché davanti… Ho cominciato a fare l’artista, con tanto di mostre, nel 1981, ma ovviamente la passione è nata molto prima. Esiste una predisposizione che porta alcuni individui a privilegiare la comunicazione attraverso la manualità, piuttosto che attraverso le parole…Io sono sempre stato così e la cosa mi ha fatto riflettere sin da giovanissimo. Ricordo di un tema, in terza elementare, in cui bisognava descrivere col ricordo o con la fantasia, una passeggiata in un bosco… Ho fatto del mio meglio, naturalmente, ma la soddisfazione vera è arrivata a casa, quando mi sono trovato a riscrivere, o meglio, a ridisegnare, ciò che avevo elaborato in classe. Il bosco era, ai miei occhi, molto più bello disegnato che scritto, con più particolari, più colori, l’impianto prospettico. Questo mi ha aiutato a prendere coscienza della mia strada in modo piuttosto precoce: nella vita le intuizioni rappresentano molto, perché ti danno slancio e nuove prospettive. In casa, i miei genitori nutrivano una grande passione nei confronti della cultura e acquistavano collane di libri ed enciclopedie, cosa ormai, ahimè, passata di moda. Le mie preferite erano “Natura Viva”, in cinque volumi con tante fotografie e “I Maestri del Colore”, serie costituita da centinaia di sottili monografie ben fatte, con una trentina d’immagini a piena pagina per ogni numero. Credo di averle consumate a furia di sfogliarle: leggevo, guardavo e le utilizzavo come modelli per i miei disegni. Semplicemente, senza saperlo, facevo già allora quello che avrei fatto oggi…
Nel tuo universo utilizzi spesso, e nei modi più disparati, elementi tratti dalla sfera ludica ed infantile. La letteratura e la psicanalisi spesso fanno lo stesso, mettendo in evidenza l’importanza e la serietà di tutti quei significati che stanno subito al di sotto della coltre dell’apparire, nel mondo incantato costruito per bambini antichi e moderni. Tu meglio degli altri, puoi svelarci chi è Peter Pan?
Ad essere sincero, Peter non mi è poi tanto simpatico. A lui preferisco, di gran lunga, Capitan Uncino, o piuttosto, il suo assistente Spugna, anche se il fascino del coccodrillo tic tac… Uncino, perseguitato dal coccodrillo, che già gli ha mangiato la mano è come Acab, perseguitato da Moby Dick: questi gli antagonisti che mi piacciono, più che cattivi sono sf**ati predestinati. Stendiamo un breve elenco: Gargamella della saga dei puffi, Gatto Silvestro, Maga Magò; a qualcuno ho dedicato alcune opere, intitolate Dream, che nascono per concedere a questi eroi negativi, un momento di riscatto sugli atavici nemici.
Considero l’immaginario metaforico un comodo ed elegante calesse su cui trottare; prendiamo la favola del Gatto con gli stivali: chi è il personaggio più interessante? Il gatto o il suo padrone, il presunto Marchese di Carabà? Io dico che sono più interessanti gli Stivali del gatto! Così nell’opera che gli ho dedicato, ci sono solo gli stivali, in realtà un oggetto che contiene una macchina radiocomandata e che è solo la rappresentazione del paio di calzari del gatto, con tanto di fibbie dorate. Un lavoro che è non–scultura per ben tre motivi: primo perché oggetto, secondo perché oggetto finto, terzo perché, addirittura, si muove; tre negazioni del concetto classico di scultura. Il titolo, poi, Gli stivali del Marchese di Carabà, allude esplicitamente alla possibilità che, alla fine, gli stivali se li sia tenuti il marchese! Questo è un possibile percorso attraverso l’opera. La fiaba è come il mito e i personaggi delle fiabe e quelli più recenti dei cartoon, fanno parte dell’immaginario collettivo. Quando Willy Coyote sposta massi enormi, su pendenze insostenibili, finisce sempre inesorabilmente schiacciato, eppure ogni volta si rialza per ricominciare, una sorta di trasposizione del supplizio di Tantalo...
Sul tuo tavolo d’artista ci sono tesori inestimabili: gommose pelli iridescenti che sembrano provenire dal corpo di un drago o da un uccello di fuoco, sono in realtà parti di oggetti comuni ed allusivi, che vengono rimodellate per generare un nuovo elemento. È chiaro ormai che l’arte sia pura rappresentazione del reale e proprio questo -peculiarità e non limite- rappresenta il viatico che permette all’artista di fare ciò che desidera. Tu crei dei giardini bellissimi, utilizzando oggetti che servono per la cura degli stessi: annaffiatoi e manichette dell’acqua diventano petali, i sottovasi si fanno foglie…
Il ciclo di lavori, che ho voluto ambiguamente titolare Culture, ha origine nel 1993. Nel 1989 dipinsi un vaso con una pianta grassa su un annaffiatoio sezionato a metà, questo era l’inizio di un’idea, che poi, tre anni dopo, si sarebbe tridimensionalizzata. Nel caso originario, giocavo sull’ambiguità del soggetto “pianta grassa” su quello specifico oggetto, per alludere alla presenza/assenza d’acqua. Avrei potuto poi dipingere piante e giardini, ad esempio, sui sacchi del terriccio. Dipingere soggetti, utilizzando come supporto qualcosa che sia referenziale ad essi (tazzina da caffè/sacco di caffè, risaia/sacco del riso, mucca/cartone del latte), rappresenta un passo che si è trasformato gradatamente da intuizione a metodo. Il ciclo delle Culture si sviluppò in questo modo. Semplice e complesso allo stesso tempo, il risultato di questo ragionamento è sfociato in un ciclo che prosegue tuttora con orchidee e piante grasse, passando attraverso la creazione di fiori grandi e piccoli, rose singole, roseti rampicanti, palme, girasoli, ninfee, ecc…
La contemporaneità, presente in questo ciclo di opere, è resa evidente sia dai materiali utilizzati che dal loro aspetto formale, che concorre a ricreare una natura che sia il più innaturale possibile. All’interno del ciclo, si possono notare due momenti distinti: le prime sperimentazioni non rappresentavano specie vegetali particolari; in seguito -direi dal roseto in poi- l’evoluzione è andata in una direzione attenta al particolare, fattore che ha, per così dire, (mi scuso per l’aggettivo ardito) “imbarocchito” il lavoro. A queste ultime varietà, ho cominciato a dare nomi propri, prendendoli da un libro sulle vite dei santi e cominciando dalla lettera A, eliminando l’appellativo di santità. Le piante grasse hanno fisionomie spiccate, quindi una forte personalità. Le orchidee sono bellissime e dotate di simmetrie inusuali, che mi ricordano i coralli, quindi mi rimandano al regno animale…
Il tuo lavoro sembra essere in sintonia con un certo surrealismo magrittiano combinato all’immancabile lezione duchampiana, una riflessione che non dimentica gli avvenimenti successivi ed in particolar modo il concettualismo…
Magritte e Duchamp sono, fra gli artisti del Novecento, quelli che hanno sviluppato meglio un metodo di lavoro. Magritte -artista concettuale travestito da pittore- riesce, partendo da strani parallelismi, a mettere in scacco il linguaggio. Duchamp è un rivoluzionario che, oltre a trasformare il concetto stesso di opera d’arte, è stato capace di utilizzare un’autoironia ineguagliabile.
Il novecento delle avanguardie, o almeno i primi cinquant’anni del secolo, sono stati un periodo fertile per l’arte ed immancabile per il dopo. Io nutro rispetto ed ammirazione per diversi protagonisti del ‘900, ma in maniera discontinua, essendo attratto da singole opere e non dalla produzione completa. Magritte e Duchamp in parte sfuggono a questi tentativi di classifica.
La maggior parte delle loro opere “fa squadra” perché sono il metodo e il pensiero che sottende ad esse a prevalere. Ciascuna delle loro opere, pur mantenendosi autonoma, fa parte di un disegno più ampio concepito dal loro creatore. Per molti può sembrare lo stesso, primo fra tutti gli esempi possibili, “il mondo secondo Picasso”. A differenza di questo, Duchamp e Magritte, hanno sviluppato uno stile mentale che privilegia la consapevolezza dello stupore.
Nel 1988 presi una pipa e dipinsi sul camino della medesima, una pipa fumante, titolando l’opera Questa pipa è una pipa; nel 1999 poi, in occasione di una mostra, aggiunsi un meccanismo che faceva fumare la “pipa oggetto”. Nessuno può confutare il fatto che almeno una delle due pipe sia vera. Anche a Duchamp, oltre al costante riferimento, ho dedicato qualcosa di particolare: Ready made assoluto, in cui all’interno di un orinatoio in plastica, comprato come scherzo di carnevale, ho dipinto uno dei ready made ideati dal grande artista. È stato divertente e, allo stesso tempo, irriverente…Una curiosità: l’orinatoio finto, del tutto somigliante all’originale, esiste in undici esemplari, tanti sono i ready made da me conosciuti.
Attraverso un fantastico “Fagiolo Magico” (2003), si atterra sui “Castelli in aria” (2002): un mondo parallelo la cui mappa è chiaramente leggibile nel bambino che chiunque custodisce in sé…
Il Fagiolo Magico nasce come conseguenza del mio interesse per le nuvole!
Nel 2001 feci un’installazione presso il C.A.C. di Bellinzona intolata Oh le nuvole…! in cui, per la prima volta, le nuvole comparivano come elemento dell’installazione. Venni poi invitato da Luisa Delle Piane ad una collettiva sul tema della leggerezza, che mi ispirò il ciclo dei Castelli in aria, basato su un’idea su cui avevo già lavorato, utilizzando sabbia e colla (1990). Così ebbi l’illuminazione di abbinare castelli di carta, evocativi di leggerezza e caducità, a nuvole fatte con morbida imbottitura di cuscini…L’idea del Fagiolo Magico giunse nel 2002: opera che considero ibrida, perché mescola cicli differenti mescolandone anche i materiali. In un primo momento l’opera allestita in studio, non mi convinse: i tre metri del soffitto non erano sufficienti a dargli lo slancio e il respiro necessari. L’opera necessita di ambienti altissimi e chiede possibilmente di “sfondare” più livelli. Finalmente nel 2003, presso la galleria Falzone di Mannheim, riuscii a installarlo su tre piani: nel seminterrato si trovava il vaso da cui partiva il fagiolo, che si risolveva al primo piano, con la nuvola e il castello d’oro. All’Oratorio dei disciplinanti di Finalborgo, approfitterò proprio del meraviglioso sviluppo in altezza della sede espositiva.
Un’ultima domanda: che cos’è la cosa più bella del mondo?
La cosa più bella del mondo è sicuramente quella sensazione psicofisica nota col nome di ENTUSIASMO, ovvero, voglia di fare, gioia di fare, idee come lampi, che arrivano e si mescolano in associazioni, lampi. La sensazione, insomma, che hai quando intuisci qualcosa, che fa reagire il tuo corpo non con un’estasi vera e propria ma con una robusta e sanissima “pelle d’oca”.
Intervista a cura di Viviana Siviero
Tutti noi, in un tempo più o meno lontano siamo stati bambini. C’è chi poi una mattina si sveglia diverso -scoprendo senza esserne consapevole, che quel tempo è passato- o chi riceve in dono di mantenere per sempre il suo immaginario più sincero. Corrado Bonomi ha percorso la lunga strada della vita passando attraverso molti medium: le sue mani -schiave obbedienti di un pensiero creativo- hanno sconfinato in universi differenti, generando liberamente pitture, sculture ed installazioni, generose, gaie e taglienti, come il più serio fra i giochi.
Il bilancio, stimato proprio “nel mezzo del cammino”, è un girotondo di opere, che sembrano rivolgersi a noi con un ghigno vagamente amaro; a generarle, un paio d’occhi, che hanno saputo conservare la parte infantile e sana dell’essere, capaci di conservare uno sguardo lucido, obiettivo e impavido, negato a chi, per crescere, ha accettato di scendere a patti con l’esistere.
Occhi che -come lo specchio di Alice- sono capaci di restituire un “bel paese delle meraviglie” in cui è necessario restare all’erta. Occhi capaci di vedere un boa che ha ingoiato un orso dove chiunque vedrebbe un cappello (Saint Exupery docet).
Bonomi denuncia universi infantili, tradendo una maturità, che si serve dell’ironia, come l’assassino si serve dell’infermità mentale per restare impunito. Non è un problema di medium contingenti, non ci si deve fissare sul risultato formale: l’uso del pennello si avvicenda ad altre forme espressive a seconda dell’impulso, della necessità e della curiosità. Interventi su vecchi manifesti, condotti con la cura di un pasticcere, si alternano ad assemblaggi creativi di oggetti affettivi e domestici, feticci eighties, che ricordano il tesoro in scatola dell’Amelie di Jeunet, ri-assortiti in modo velatamente politically uncorrect...Beni dallo scarso valore commerciale, manipolati per risorgere a nuova vita, preziosità di bambini che innescano circuiti d’affezione che, in una misura o nell’altra, sono la storia di tutti, generati fra le quattro mura di un Bomarzo urbano e privatissimo.
Una genialità, quella di Bonomi, da ricercare nel “perché” più che nel “come”: «tutto sommato è solo un caso che l’arte coincida con i destini dell’uomo» afferma Corrado, col suo sorriso tipico da Stregatto terrestre…
Viviana Siviero: La tua è una carriera lunga ed intensa, che ti ha portato ad essere una sorta di narratore senza parole, che esprime la rabbia sana dell’arte. Com’è cominciata l’avventura?
Corrado Bonomi: Non mi sono mai fermato più di tanto a riflettere sulla mia carriera, sempre troppo impegnato nella creazione in divenire. Ho una sorta di pudore scaramantico nel parlare di me…quando cominci a guardarti indietro è perché davanti… Ho cominciato a fare l’artista, con tanto di mostre, nel 1981, ma ovviamente la passione è nata molto prima. Esiste una predisposizione che porta alcuni individui a privilegiare la comunicazione attraverso la manualità, piuttosto che attraverso le parole…Io sono sempre stato così e la cosa mi ha fatto riflettere sin da giovanissimo. Ricordo di un tema, in terza elementare, in cui bisognava descrivere col ricordo o con la fantasia, una passeggiata in un bosco… Ho fatto del mio meglio, naturalmente, ma la soddisfazione vera è arrivata a casa, quando mi sono trovato a riscrivere, o meglio, a ridisegnare, ciò che avevo elaborato in classe. Il bosco era, ai miei occhi, molto più bello disegnato che scritto, con più particolari, più colori, l’impianto prospettico. Questo mi ha aiutato a prendere coscienza della mia strada in modo piuttosto precoce: nella vita le intuizioni rappresentano molto, perché ti danno slancio e nuove prospettive. In casa, i miei genitori nutrivano una grande passione nei confronti della cultura e acquistavano collane di libri ed enciclopedie, cosa ormai, ahimè, passata di moda. Le mie preferite erano “Natura Viva”, in cinque volumi con tante fotografie e “I Maestri del Colore”, serie costituita da centinaia di sottili monografie ben fatte, con una trentina d’immagini a piena pagina per ogni numero. Credo di averle consumate a furia di sfogliarle: leggevo, guardavo e le utilizzavo come modelli per i miei disegni. Semplicemente, senza saperlo, facevo già allora quello che avrei fatto oggi…
Nel tuo universo utilizzi spesso, e nei modi più disparati, elementi tratti dalla sfera ludica ed infantile. La letteratura e la psicanalisi spesso fanno lo stesso, mettendo in evidenza l’importanza e la serietà di tutti quei significati che stanno subito al di sotto della coltre dell’apparire, nel mondo incantato costruito per bambini antichi e moderni. Tu meglio degli altri, puoi svelarci chi è Peter Pan?
Ad essere sincero, Peter non mi è poi tanto simpatico. A lui preferisco, di gran lunga, Capitan Uncino, o piuttosto, il suo assistente Spugna, anche se il fascino del coccodrillo tic tac… Uncino, perseguitato dal coccodrillo, che già gli ha mangiato la mano è come Acab, perseguitato da Moby Dick: questi gli antagonisti che mi piacciono, più che cattivi sono sf**ati predestinati. Stendiamo un breve elenco: Gargamella della saga dei puffi, Gatto Silvestro, Maga Magò; a qualcuno ho dedicato alcune opere, intitolate Dream, che nascono per concedere a questi eroi negativi, un momento di riscatto sugli atavici nemici.
Considero l’immaginario metaforico un comodo ed elegante calesse su cui trottare; prendiamo la favola del Gatto con gli stivali: chi è il personaggio più interessante? Il gatto o il suo padrone, il presunto Marchese di Carabà? Io dico che sono più interessanti gli Stivali del gatto! Così nell’opera che gli ho dedicato, ci sono solo gli stivali, in realtà un oggetto che contiene una macchina radiocomandata e che è solo la rappresentazione del paio di calzari del gatto, con tanto di fibbie dorate. Un lavoro che è non–scultura per ben tre motivi: primo perché oggetto, secondo perché oggetto finto, terzo perché, addirittura, si muove; tre negazioni del concetto classico di scultura. Il titolo, poi, Gli stivali del Marchese di Carabà, allude esplicitamente alla possibilità che, alla fine, gli stivali se li sia tenuti il marchese! Questo è un possibile percorso attraverso l’opera. La fiaba è come il mito e i personaggi delle fiabe e quelli più recenti dei cartoon, fanno parte dell’immaginario collettivo. Quando Willy Coyote sposta massi enormi, su pendenze insostenibili, finisce sempre inesorabilmente schiacciato, eppure ogni volta si rialza per ricominciare, una sorta di trasposizione del supplizio di Tantalo...
Sul tuo tavolo d’artista ci sono tesori inestimabili: gommose pelli iridescenti che sembrano provenire dal corpo di un drago o da un uccello di fuoco, sono in realtà parti di oggetti comuni ed allusivi, che vengono rimodellate per generare un nuovo elemento. È chiaro ormai che l’arte sia pura rappresentazione del reale e proprio questo -peculiarità e non limite- rappresenta il viatico che permette all’artista di fare ciò che desidera. Tu crei dei giardini bellissimi, utilizzando oggetti che servono per la cura degli stessi: annaffiatoi e manichette dell’acqua diventano petali, i sottovasi si fanno foglie…
Il ciclo di lavori, che ho voluto ambiguamente titolare Culture, ha origine nel 1993. Nel 1989 dipinsi un vaso con una pianta grassa su un annaffiatoio sezionato a metà, questo era l’inizio di un’idea, che poi, tre anni dopo, si sarebbe tridimensionalizzata. Nel caso originario, giocavo sull’ambiguità del soggetto “pianta grassa” su quello specifico oggetto, per alludere alla presenza/assenza d’acqua. Avrei potuto poi dipingere piante e giardini, ad esempio, sui sacchi del terriccio. Dipingere soggetti, utilizzando come supporto qualcosa che sia referenziale ad essi (tazzina da caffè/sacco di caffè, risaia/sacco del riso, mucca/cartone del latte), rappresenta un passo che si è trasformato gradatamente da intuizione a metodo. Il ciclo delle Culture si sviluppò in questo modo. Semplice e complesso allo stesso tempo, il risultato di questo ragionamento è sfociato in un ciclo che prosegue tuttora con orchidee e piante grasse, passando attraverso la creazione di fiori grandi e piccoli, rose singole, roseti rampicanti, palme, girasoli, ninfee, ecc…
La contemporaneità, presente in questo ciclo di opere, è resa evidente sia dai materiali utilizzati che dal loro aspetto formale, che concorre a ricreare una natura che sia il più innaturale possibile. All’interno del ciclo, si possono notare due momenti distinti: le prime sperimentazioni non rappresentavano specie vegetali particolari; in seguito -direi dal roseto in poi- l’evoluzione è andata in una direzione attenta al particolare, fattore che ha, per così dire, (mi scuso per l’aggettivo ardito) “imbarocchito” il lavoro. A queste ultime varietà, ho cominciato a dare nomi propri, prendendoli da un libro sulle vite dei santi e cominciando dalla lettera A, eliminando l’appellativo di santità. Le piante grasse hanno fisionomie spiccate, quindi una forte personalità. Le orchidee sono bellissime e dotate di simmetrie inusuali, che mi ricordano i coralli, quindi mi rimandano al regno animale…
Il tuo lavoro sembra essere in sintonia con un certo surrealismo magrittiano combinato all’immancabile lezione duchampiana, una riflessione che non dimentica gli avvenimenti successivi ed in particolar modo il concettualismo…
Magritte e Duchamp sono, fra gli artisti del Novecento, quelli che hanno sviluppato meglio un metodo di lavoro. Magritte -artista concettuale travestito da pittore- riesce, partendo da strani parallelismi, a mettere in scacco il linguaggio. Duchamp è un rivoluzionario che, oltre a trasformare il concetto stesso di opera d’arte, è stato capace di utilizzare un’autoironia ineguagliabile.
Il novecento delle avanguardie, o almeno i primi cinquant’anni del secolo, sono stati un periodo fertile per l’arte ed immancabile per il dopo. Io nutro rispetto ed ammirazione per diversi protagonisti del ‘900, ma in maniera discontinua, essendo attratto da singole opere e non dalla produzione completa. Magritte e Duchamp in parte sfuggono a questi tentativi di classifica.
La maggior parte delle loro opere “fa squadra” perché sono il metodo e il pensiero che sottende ad esse a prevalere. Ciascuna delle loro opere, pur mantenendosi autonoma, fa parte di un disegno più ampio concepito dal loro creatore. Per molti può sembrare lo stesso, primo fra tutti gli esempi possibili, “il mondo secondo Picasso”. A differenza di questo, Duchamp e Magritte, hanno sviluppato uno stile mentale che privilegia la consapevolezza dello stupore.
Nel 1988 presi una pipa e dipinsi sul camino della medesima, una pipa fumante, titolando l’opera Questa pipa è una pipa; nel 1999 poi, in occasione di una mostra, aggiunsi un meccanismo che faceva fumare la “pipa oggetto”. Nessuno può confutare il fatto che almeno una delle due pipe sia vera. Anche a Duchamp, oltre al costante riferimento, ho dedicato qualcosa di particolare: Ready made assoluto, in cui all’interno di un orinatoio in plastica, comprato come scherzo di carnevale, ho dipinto uno dei ready made ideati dal grande artista. È stato divertente e, allo stesso tempo, irriverente…Una curiosità: l’orinatoio finto, del tutto somigliante all’originale, esiste in undici esemplari, tanti sono i ready made da me conosciuti.
Attraverso un fantastico “Fagiolo Magico” (2003), si atterra sui “Castelli in aria” (2002): un mondo parallelo la cui mappa è chiaramente leggibile nel bambino che chiunque custodisce in sé…
Il Fagiolo Magico nasce come conseguenza del mio interesse per le nuvole!
Nel 2001 feci un’installazione presso il C.A.C. di Bellinzona intolata Oh le nuvole…! in cui, per la prima volta, le nuvole comparivano come elemento dell’installazione. Venni poi invitato da Luisa Delle Piane ad una collettiva sul tema della leggerezza, che mi ispirò il ciclo dei Castelli in aria, basato su un’idea su cui avevo già lavorato, utilizzando sabbia e colla (1990). Così ebbi l’illuminazione di abbinare castelli di carta, evocativi di leggerezza e caducità, a nuvole fatte con morbida imbottitura di cuscini…L’idea del Fagiolo Magico giunse nel 2002: opera che considero ibrida, perché mescola cicli differenti mescolandone anche i materiali. In un primo momento l’opera allestita in studio, non mi convinse: i tre metri del soffitto non erano sufficienti a dargli lo slancio e il respiro necessari. L’opera necessita di ambienti altissimi e chiede possibilmente di “sfondare” più livelli. Finalmente nel 2003, presso la galleria Falzone di Mannheim, riuscii a installarlo su tre piani: nel seminterrato si trovava il vaso da cui partiva il fagiolo, che si risolveva al primo piano, con la nuvola e il castello d’oro. All’Oratorio dei disciplinanti di Finalborgo, approfitterò proprio del meraviglioso sviluppo in altezza della sede espositiva.
Un’ultima domanda: che cos’è la cosa più bella del mondo?
La cosa più bella del mondo è sicuramente quella sensazione psicofisica nota col nome di ENTUSIASMO, ovvero, voglia di fare, gioia di fare, idee come lampi, che arrivano e si mescolano in associazioni, lampi. La sensazione, insomma, che hai quando intuisci qualcosa, che fa reagire il tuo corpo non con un’estasi vera e propria ma con una robusta e sanissima “pelle d’oca”.
05
agosto 2006
Corrado Bonomi – Sogno come ironia
Dal 05 agosto al 24 settembre 2006
arte contemporanea
Location
COMPLESSO MONUMENTALE DI SANTA CATERINA
Finale Ligure, Piazza Santa Caterina, (Savona)
Finale Ligure, Piazza Santa Caterina, (Savona)
Orario di apertura
tutti i giorni 18.00/23.00 chiuso il martedì
Vernissage
5 Agosto 2006, ore 18.30
Autore
Curatore




