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Energia e dinamica nei marchingegni di Bolley
Eugenio Bolley è un artista che dedica gran parte della sua vita a realizzare opere meccaniche, circondato dal canto degli uccellini
Comunicato stampa
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“Le macchine sono noiose con il loro ritmo uniforme costante. Con opportuni accorgimenti si possono costruire macchine il cui rumore ricorda il cinguettio degli uccelli”. Bruno Munari
Eugenio Bolley è un artista che dedica gran parte della sua vita a realizzare opere meccaniche, circondato dal canto degli uccellini. Bolley lasciò un lavoro di routine nella Torino industriale degli anni Settanta per trasferirsi a Bardonecchia, in una casa tra i boschi, dividendosi tra opere umanitarie e arte. Una volta ironicamente mi disse: “quando seppi della morte di Picasso, nel 1973, ho pensato che si fosse liberato un posto d’artista; allora sono subito andato ad occuparlo”. L’indomani presentò le dimissioni all’azienda dove lavorava.
Lo spirito poetico, il piacere infantile d’inventare, giocare, fantasticare e divertire sono il filo rosso della sua produzione artistica, dai dipinti alle opere su carta fino agli assemblaggi meccanici.
Quella degli Elicotteri è una delle sue serie più famose, insieme agli Urogalli e Bardogalli. Gli Elicotteri sono intricate e intriganti macchine ad elica che ruotano, girano, si spostano con congegni meccanici di ferro, bronzo e ghisa. Hanno varie dimensioni, possono essere piccole circa 20 cm d’altezza come “Il giocattolo che non ho avuto quando ero piccolo”(1999), oppure alte 450 cm come “L’elicotterorosa”, una scultura mobile, in acciaio dipinto, dopo la mostra del 2001 ad Alba alla Fondazione Ferrero è ora collocata nel parco della Fondazione stessa. Questa opera, caratterizzata da due eliche che ruotano sotto la spinta del vento, fu anche esposta a Palazzo Bricherasio di Torino nel maggio/giugno del 2002.
Non è facile conservare l’immaginario infantile, quello curioso, inventivo, un po’ ingenuo, creativo e fantastico; esiste in tutti gli esseri umani, ma molti lo soffocano, l’opprimono, lo cancellano, credendo che la serietà faccia apparire più intelligenti e stimabili.
Ma non è così, la vivacità immaginifica dell’infanzia non dovrebbe mai andar perduta; sono pochi, però, quelli che sanno preservarla come un oggetto prezioso. Eugenio Bolley non solo la conserva, ma la trasmette con i suoi fantasiosi lavori. Ricorda ancora i sogni che faceva da bambino: sognava di volare sopra le case, sopra i campanili. Quando me lo racconta mi vengono in mente i dipinti di Marc Chagalle.
A Susa, all’inizio degli anni ’50, conobbe il primo pilota italiano d’elicotteri, il Colonnello Alfonso Isaia, padre del fotografo Enzo Isaia, e quando vide l’elicottero che pilotava nacque in lui la passione per le macchine che volano nell’aria come libellule.
Nelle sue opere non c’è solo un fanciullesco stupore e un primitivo recupero dell’immaginario infantile ma anche il gusto per “l’estetica della macchina”.
Nel Novecento, due movimenti apparentemente in antitesi, il Futurismo e il Dadaismo, si occuparono delle macchine con valenze diverse. La meccanica come propulsione verso il futuro era esaltata dai futuristi, la macchina “celibe”, la macchina inutile era invece quella più consona agli anarchici dadaisti, amanti dell’assurdo e dell’alchemico come Duchamp ne “La Mariée mise à nu par ses célibataires”. In entrambe le correnti, però, c’era il desiderio di dare una valenza estetica a quei nuovi oggetti prodotti dall’industria; macchine create non per produrre senso, né per essere belle, ma per essere utili.
Tra i celebri firmatari dei numerosi manifesti futuristi, che da Marinetti a Boccioni, da Sant’Elia a Depero propongono un modo nuovo di vedere il mondo, ci sono anche i meno noti Ivo Pannaggi e Vinicio Paladini, che nel 1922 pubblicano su Lacerba “Il Manifesto dell’arte meccanica futurista”.
“Pulegge, volani, bulloni, tutto l’acciaio pulito ed il grasso odorante. Ecco dove ci sentiamo irresistibilmente attratti
Gli ingranaggi purificano i nostri occhi dalla nebbia dell’indeciso. Sentiamo meccanicamente e ci sentiamo costruiti in acciaio anche noi macchine, meccanizzati dall’atmosfera.(…) Ed è questa la nuova necessità, il principio della nuova estetica”, declamavano costoro.
C’è anche chi più tardi, come Bruno Munari e Jean Tinguely, spezza i dogmi del razionalismo meccanico applicando alla perfezione l’interferenza tra la regola e il caso. La macchina di Munari, ad esempio, sfida il fruitore diventando una creatura autonoma, imprevedibile e priva di condizionamenti.
Bolley non è estraneo alla cultura “macchinica” che ha attraversato tutto il secolo scorso, i suoi assemblaggi di rotelle, ingranaggi, manopole, bulloni e utensili vari sono conosciuti in numerosi musei e gallerie d’Europa e come dice Milena-Bellini Sheppard “ Bolley è considerato uno dei maggiori rappresentanti della Technoart nel mondo”.
Più che mai appropriata, quindi, risulta la scelta dello spazio espositivo scelto per questa nuova mostra nella Centrale dell’ENEL di Bardonecchia. Il vasto edificio, dedicato allo scienziato “Mario Celso” -inventore del raddrizzatore elettromagnetico utilizzato ancora oggi nel mondo e vincitore del Premio Oscar “Scientific & Technical Award” per il contributo tecnologico allo sviluppo dell’industria cinematografica- è caratterizzato dall’architettura di primo Novecento. All’interno, nella parte espositiva, sono presenti i grandi macchinari –tuttora funzionanti con le acque del torrente Rochemolles- che dominano lo spazio come monumenti alla “modernità”, macchine fonti di quell’energia e dinamismo che tanto ispirò la poetica futurista. Elisabetta Tolosano
Eugenio Bolley è un artista che dedica gran parte della sua vita a realizzare opere meccaniche, circondato dal canto degli uccellini. Bolley lasciò un lavoro di routine nella Torino industriale degli anni Settanta per trasferirsi a Bardonecchia, in una casa tra i boschi, dividendosi tra opere umanitarie e arte. Una volta ironicamente mi disse: “quando seppi della morte di Picasso, nel 1973, ho pensato che si fosse liberato un posto d’artista; allora sono subito andato ad occuparlo”. L’indomani presentò le dimissioni all’azienda dove lavorava.
Lo spirito poetico, il piacere infantile d’inventare, giocare, fantasticare e divertire sono il filo rosso della sua produzione artistica, dai dipinti alle opere su carta fino agli assemblaggi meccanici.
Quella degli Elicotteri è una delle sue serie più famose, insieme agli Urogalli e Bardogalli. Gli Elicotteri sono intricate e intriganti macchine ad elica che ruotano, girano, si spostano con congegni meccanici di ferro, bronzo e ghisa. Hanno varie dimensioni, possono essere piccole circa 20 cm d’altezza come “Il giocattolo che non ho avuto quando ero piccolo”(1999), oppure alte 450 cm come “L’elicotterorosa”, una scultura mobile, in acciaio dipinto, dopo la mostra del 2001 ad Alba alla Fondazione Ferrero è ora collocata nel parco della Fondazione stessa. Questa opera, caratterizzata da due eliche che ruotano sotto la spinta del vento, fu anche esposta a Palazzo Bricherasio di Torino nel maggio/giugno del 2002.
Non è facile conservare l’immaginario infantile, quello curioso, inventivo, un po’ ingenuo, creativo e fantastico; esiste in tutti gli esseri umani, ma molti lo soffocano, l’opprimono, lo cancellano, credendo che la serietà faccia apparire più intelligenti e stimabili.
Ma non è così, la vivacità immaginifica dell’infanzia non dovrebbe mai andar perduta; sono pochi, però, quelli che sanno preservarla come un oggetto prezioso. Eugenio Bolley non solo la conserva, ma la trasmette con i suoi fantasiosi lavori. Ricorda ancora i sogni che faceva da bambino: sognava di volare sopra le case, sopra i campanili. Quando me lo racconta mi vengono in mente i dipinti di Marc Chagalle.
A Susa, all’inizio degli anni ’50, conobbe il primo pilota italiano d’elicotteri, il Colonnello Alfonso Isaia, padre del fotografo Enzo Isaia, e quando vide l’elicottero che pilotava nacque in lui la passione per le macchine che volano nell’aria come libellule.
Nelle sue opere non c’è solo un fanciullesco stupore e un primitivo recupero dell’immaginario infantile ma anche il gusto per “l’estetica della macchina”.
Nel Novecento, due movimenti apparentemente in antitesi, il Futurismo e il Dadaismo, si occuparono delle macchine con valenze diverse. La meccanica come propulsione verso il futuro era esaltata dai futuristi, la macchina “celibe”, la macchina inutile era invece quella più consona agli anarchici dadaisti, amanti dell’assurdo e dell’alchemico come Duchamp ne “La Mariée mise à nu par ses célibataires”. In entrambe le correnti, però, c’era il desiderio di dare una valenza estetica a quei nuovi oggetti prodotti dall’industria; macchine create non per produrre senso, né per essere belle, ma per essere utili.
Tra i celebri firmatari dei numerosi manifesti futuristi, che da Marinetti a Boccioni, da Sant’Elia a Depero propongono un modo nuovo di vedere il mondo, ci sono anche i meno noti Ivo Pannaggi e Vinicio Paladini, che nel 1922 pubblicano su Lacerba “Il Manifesto dell’arte meccanica futurista”.
“Pulegge, volani, bulloni, tutto l’acciaio pulito ed il grasso odorante. Ecco dove ci sentiamo irresistibilmente attratti
Gli ingranaggi purificano i nostri occhi dalla nebbia dell’indeciso. Sentiamo meccanicamente e ci sentiamo costruiti in acciaio anche noi macchine, meccanizzati dall’atmosfera.(…) Ed è questa la nuova necessità, il principio della nuova estetica”, declamavano costoro.
C’è anche chi più tardi, come Bruno Munari e Jean Tinguely, spezza i dogmi del razionalismo meccanico applicando alla perfezione l’interferenza tra la regola e il caso. La macchina di Munari, ad esempio, sfida il fruitore diventando una creatura autonoma, imprevedibile e priva di condizionamenti.
Bolley non è estraneo alla cultura “macchinica” che ha attraversato tutto il secolo scorso, i suoi assemblaggi di rotelle, ingranaggi, manopole, bulloni e utensili vari sono conosciuti in numerosi musei e gallerie d’Europa e come dice Milena-Bellini Sheppard “ Bolley è considerato uno dei maggiori rappresentanti della Technoart nel mondo”.
Più che mai appropriata, quindi, risulta la scelta dello spazio espositivo scelto per questa nuova mostra nella Centrale dell’ENEL di Bardonecchia. Il vasto edificio, dedicato allo scienziato “Mario Celso” -inventore del raddrizzatore elettromagnetico utilizzato ancora oggi nel mondo e vincitore del Premio Oscar “Scientific & Technical Award” per il contributo tecnologico allo sviluppo dell’industria cinematografica- è caratterizzato dall’architettura di primo Novecento. All’interno, nella parte espositiva, sono presenti i grandi macchinari –tuttora funzionanti con le acque del torrente Rochemolles- che dominano lo spazio come monumenti alla “modernità”, macchine fonti di quell’energia e dinamismo che tanto ispirò la poetica futurista. Elisabetta Tolosano
15
luglio 2006
Energia e dinamica nei marchingegni di Bolley
Dal 15 luglio al 27 agosto 2006
arte contemporanea
Location
CENTRALE DELL’ENEL MARIO CELSO
Bardonecchia, Borgata Medail, 3, (Torino)
Bardonecchia, Borgata Medail, 3, (Torino)
Vernissage
15 Luglio 2006, ore 18
Autore




